The Mission: la percezione ambigua della staticità PDF 
Gianpiero Ariola   

Con The Mission Johnnie To inaugura una riscoperta del genere noir in terra d’oriente, imponendo fin dall’inizio un modello talmente definito da poter rivendicare la paternità di un vero e proprio sottogenere (1). Questo è il binario su cui il regista cinese farà scorrere la propria personalissima poetica e che salda al suolo con questa pellicola del 1999, cominciando a definire temi (l’attenzione per la dinamica del gruppo, l’importanza del destino, il fascino dell’ambiguità quasi grottesca dei personaggi), ma concentrandosi soprattutto sull’impianto scenografico e sulla definizione di canoni stilistici e sulle linee di forze della narrazione.

Una delle scelte più evidenti è di certo quella di un’interpretazione cromatica del classico contrasto bianco e nero, che qui vira verso un’atmosfera cupa ma dal sapore artificiale. La prevalenza del colore blu che domina molte delle scene notturne è giustificata, in parte, dalla prossimità di specchi d’acqua (piscina, mare), ma, in realtà, sembra contenere la suggestione psichedelica degli interni (centri commerciali, bar notturni), e soprattutto sembra derivare da quelle atmosfere artificiali che prevale nell’introduzione del film. Con The Mission To costruisce un mirabile impianto visivo che, fondato su raffinate geometrie compositive, riempie armoniosamente l’inquadratura con i corpi dei personaggi, disposti su piani differenti di profondità. Egli fa appunto evolvere la diegesi all’interno di inquadrature ampie e fisse, puntando sull’efficacia di un effetto di staticità, che per quanto ambiguo (come si vedrà in seguito, si tratta di una staticità sempre contrastata da sensazioni di movimento) risulta decisamente insolito per un action movie (2). Prediligendo infatti i campi medi e lunghi, il regista attrae lo sguardo verso quelle linee prospettiche che raccordano le figure, soffermando l’asse della narrazione su un dinamismo interno, e risolvendo la tensione dell’azione senza dover abusare di movimenti di macchina, che per l’appunto non sono minimi.

Lungo l’asse orizzontale del quadro, esteso nella massima ampiezza del formato anamorfico e addomesticato dalla convessità simmetrica della visione ultragrandangolare, le scene collettive acquistano due configurazioni di movimento ben distinte, anche se entrambe caratterizzate da una percezione ossimorica. Da un lato, vi sono quelle che pur apparendo statiche nella struttura di fondo sono animate in superficie, quasi elettrizzate da una microtensione. In questi passaggi, infatti, la narrazione frena fino a sfiorare l’impasse, sembra non progredire, eppure è solcata da un mutismo, ora spavaldo (vedi il primo incontro delle cinque guardie del corpo) ora imbarazzato (nella scena in cui il signor Lung incontra i suoi uomini, o successivamente quando offre loro da bere), che, se in parte si intona con la lentezza dell’azione, innesca tuttavia una sensazione di movimento, ovvero un’increspatura emotiva che agita il corpo dello spettatore. È come un micromovimento dal sapore grottesco che insinua un senso di sospensione surreale, che a tratti rievoca parodisticamente gli interminabili silenzi del western. Dall’altro lato, si pongono le scene dei conflitti a fuoco (soprattutto quello nel centro commerciale), in cui il rapporto dialettico tra i piani percettivi del racconto è rovesciato. Infatti, mentre il sottofondo diegetico presenta al pubblico una situazione critica, carica di tensione, si sente aleggiare sullo scorrere delle immagini una tale regolarità e precisione da insinuare un certo immobilismo nel ritmo della narrazione. Tale sensazione viene instillata dagli improvvisi rallentamenti dell’azione e dalle prolungate immagini fisse. Il movimento che è consueto attendersi in una scena con all'interno un conflitto a fuoco, più che esplodere in azioni ipercinetiche, come avviene nel classico gunplay honkonghese, scorre invece fluido, frammentandosi in tracce non sempre visibili (si pensi agli spari acusmatizzati), quali gli scintillii delle pistole, i riflessi distorti e ingannevoli delle pareti lucide, i misurati spostamenti corporei della squadra. Tutto si svolge all’interno della staticità del quadro (i movimenti di macchina sono limitati, come si accennava, e comunque hanno un andamento rilassato e limitato, come gli zoom che lavorano solo sui piani) e i corpi si spostano come fossero biglie di un biliardo che schizzano senza scontrarsi, riuscendo sempre a planare eleganti verso articolate sponde-nascondigli.

Sull’avvicendarsi di queste due categorie di immagini si misura poi la dinamica psicologica dei membri del gruppo. L’energia percepita lungo le linee geometriche della composizione non è solo il risultato di un effetto visivo-spaziale, e non esaurisce la sua forza in un esercizio estetizzante. Al contrario, essa sembra svelare i taciti rapporti tra i personaggi, che da una condizione di iniziale indifferenza reciproca evolvono verso un’inattesa e implicita solidarietà. Allora sullo sfondo di uno spettacolo chiaroscurale tipico del noir, infarcito di spietata freddezza di matrice gangster, emergono dalle pieghe dell’intreccio i segnali di un atto dirompente, che fa intravedere i barlumi di un’intesa e di un accenno di amicizia. A palesare esplicitamente il legame crescente tra i membri è poi una specifica scena, ovvero quella in cui i cinque si passano una palla di carta nel corridoio, in attesa del signor Lung. Quando anche Curtis finisce per partecipare al gioco, aggirando temporaneamente il suo gelido contegno, il racconto sembra subire un piccolo scossone che fa intuire la possibilità di un rapporto non più limitato alla sfera professionale.

L’atmosfera di tutto il film è pervasa, inoltre, grazie all’intervento di una musica vezzosa, da un tono disteso e parodistico. L’estrema semplicità strutturale del tema e il suo timbro digitale quasi dozzinale configurano un climax che ammicca volentieri ad un allentamento della tensione, velando di ironia la ricercata stilizzazione dei gesti e delle espressioni. Ed è forse proprio l’intervento un po’ spiazzante della colonna sonora a tenere aperte quelle piccole falle nell’impeccabile condotta dei personaggi (la cui esemplarità è raggiunta da Curtis, detto appunto “ghiaccio”, impassibile a tal punto da subire un’aggressione dal suo stesso compagno senza accennare ad una reazione), al fine di eludere la sorveglianza della rigidità professionale e lasciare defluire rivoli appena percettibili di umanità. La lunga sequenza conclusiva, che pone la questione morale dell’eliminazione del proprio compagno, lo dimostra chiaramente, proprio chiamando in causa l’opposizione tra lavoro e protezione, tra ragione e sentimento. Infatti, dopo una rumorosa e drammatica sparatoria, è proprio il tema musicale, con quel suo andamento ai limiti del faceto, a rasserenare l’atmosfera anticipando con le sue note spensierate e il ritmo semiserio l’esito positivo del contenzioso. Un happy end che preconizza anche quanto non solo sentimenti, ma soprattutto fragilità e vulnerabilità, si insidieranno gradualmente nei personaggi di To, quali ombre ingombranti e invadenti dei suoi eroi e anti-eroi.

Note:
(1) Cfr. Stephen Teo, Director in action: Johnnie To and the Hong Kong action film, Aberdeen - Hong Kong, Hong Kong University Press, 2007, p. 123-4. Teo sostiene infatti che To ha dato vita al Kowloon Noir, basato sulla configurazione di un mondo astratto e circoscritto, in cui domina un codice misogino e sexofobico. .
(2) Ivi, p. 118. L’analisi condotta da Stephen Teo qualifica la pellicola come un esperimento di formalismo estetico, attraverso l’immissione di un principio di inazione dentro l’azione.

TITOLO ORIGINALE: Cheung fo; REGIA: Johnnie To; SCENEGGIATURA: Yau Nai Hoi; FOTOGRAFIA: Cheng Siu Keung; MONTAGGIO: Andy Chan; MUSICA: Chung Chi Wing; PRODUZIONE: Hong Kong; ANNO: 1999; DURATA: 81 min.


 


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