Gomorra: sociologia del crimine PDF 
Attilio Palmieri   

Spesso si dice che l’arte si esalta nel rappresentare il male. Il suo compito è anche mostrare e quando la materia da mostrare è terribile, inquietante, il prodotto artistico può risultare altrettanto inquietante, ma terribilmente struggente. Ma non accade spesso. Ci vuole il burattinaio, un’istanza narrante logica, coerente, lucida e geniale e questo è il caso di Gomorra che è addirittura un caso limite perché gli autori sono sostanzialmente due, Matteo Garrone e Roberto Saviano. Il fatto che siano due non ne dimezza i meriti, anzi, ne potenzia l’efficienza creativa. Il giovane scrittore è stato un preziosissimo collaboratore per il soggetto e per la sceneggiatura, oltre ad aver fornito l’immensa materia prima. Il giovane regista ci mostra uno spettacolo che nel buio della sala ci fa tremare, ci inquieta, che fino ad oggi molti non hanno voluto conoscere, perché è meglio star sereni.

Ora sono le immagini a mostrarcela, uno strumento molto più diretto, di più facile fruizione e forse con un effetto ancora più devastante. Le riprese di Garrone sono uno scossone sensoriale che arriva fino al cervello e lascia paralizzati sulla poltrona, inermi, sottomessi da una realtà che sembra non arginabile, amplificata da quei titoli di coda che ci offrono dei numeri che pesano come macigni. Il regista de L’imbalsamatore organizza una messa in scena piena di spazi stretti e bui, luoghi di una realtà che vive negli anfratti della società ma che ci si insinua sempre più fino a sfondarne il nucleo. Una regia che conferma la grande unità stilistica di Matteo Garrone fatta di immagini sporche, scure ed oscure, inserite in un discorso registico che rifiuta il campo e contro campo in favore di lunghi piani sequenza eseguiti sempre con la macchina a mano – un merito ulteriore va all’autore se si considera che ricopre anche il ruolo di operatore - per essere in ogni momento dentro l’azione e dentro la narrazione e non perdere nemmeno un secondo della realtà.

Il sesto film di Garrone è un vero e proprio saggio antropologico che investe trasversalmente tutte le fasce di età di una certa società napoletana in cui la camorra è in rapporto osmotico con la gente comune. È inquietante vedere gli occhi impauriti del piccolo Salvatore che riflette su come sia possibile che un amico di infanzia possa da un momento all’altro diventare “nemico” o come si possa ammazzare una donna inerme perché rea di avere un figlio che ha tradito il clan. Il film è costituito da cinque storie che riguardano persone di età, cultura, educazione e condizione economica diverse, storie i cui sviluppi non si intrecciano, come ormai sempre più spesso accade nei film “corali”, ma sono collegate a doppio filo da un sentimento, un sentire comune, fatto di paura, tentazione, omertà, povertà d’animo e aggressività messe insieme, creato e sviluppato dalla criminalità organizzata. Forse la vicenda più struggente, più disarmante, filologicamente più interessante è quella dei due ragazzi adolescenti, privi di qualsiasi fondamenta di valori, cresciuti con una visione distorta dei gangster movie, pronti a tutto per affermare la propria voglia di emergere, la propria identità artificiale e scacciare così quel senso lancinante di insicurezza e solitudine. La scelta del dialetto è stata una delle soluzioni migliori del regista perché mai come in questo caso la forma è sostanza. Il verbo ha un’importanza capitale per i napoletani ed in particolare per quei napoletani; all’interno della parola e delle espressioni c’è tutta l’essenza di una cultura, di un modo di vivere e di un modo di essere.

 

 


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