Cinema Ritrovato 2011: il cinema come non si vede da nessun'altra parte PDF 
Francesca Druidi   

Particolarmente intessuto di raccordi e di corrispondenze, in quest’edizione 2011 il Cinema Ritrovato festeggia i suoi primi 25 anni di attività segnando nuovi record: 10mila spettatori in più rispetto al 2010 per almeno 67mila spettatori finali, tra i quali molti giovani e i rappresentanti di una quarantina di paesi, che hanno avuto l’opportunità, dal 25 giugno al 2 luglio, di ammirare a Bologna i 375 film in programma. Opere che hanno potuto contare su un’ulteriore location: il Cinema Jolly, andato ad affiancarsi alle storiche sale della Cineteca bolognese e al Cinema Arlecchino. Fondamentale è pensare al lavoro del festival – e in generale della Cineteca – non come a un’operazione nostalgica, ma a un modo con cui leggere criticamente e consapevolmente il passato cinematografico, non solo per reinterpretarlo con occhi diversi, ma soprattutto per esaminare con rinnovato slancio il presente, lanciando al contempo uno sguardo verso il futuro.

Non deve pertanto stupire la presenza in cartellone di un film come The Artist di Michel Hazanavicius, rivelazione dell’ultimo festival di Cannes, accompagnato a Bologna dal direttore della Croisette, Thierry Fremaux. La storia dei percorsi incrociati di una star del cinema muto hollywoodiano che va in crisi all’avvento del sonoro, George Valentin (Jean Dujardin, particolarmente aderente al personaggio grazie a una fisicità più che mai credibile e appropriata, vincitore del premio come miglior attore a Cannes), e di un’aspirante attrice Peppy Miller (Bérénice Bejo), da sempre innamorata di Valentin, che invece diventa una delle prime stelle del nuovo corso è, infatti, raccontata adottando il formato e l’estetica del cinema muto, dalle didascalie al ruolo e alla rilevanza delle musiche. Come sottolineato dallo stesso Fremaux, The Artist è un film destinato inesorabilmente a dividere chi lo guarda, tra quanti lo definiscono un gioiello e coloro che, al contrario, lo reputano una rievocazione sì filologicamente corretta, ma inerte e fine a se stessa. Il lavoro di Hazanavicius sembra suggerire che per continuare ad attrarre e richiamare il pubblico, il cinema ha bisogno di abbandonare, in alcuni passaggi della sua storia, i propri convincimenti, le proprie certezze, per sperimentare nuove strade, riappropriandosi di quella passione che rende le storie davvero coinvolgenti allo sguardo degli spettatori.

Tra proiezioni e incontri, suddivisi tra i due filoni principali – “La macchina del tempo e “Il paradiso dei cinefili” –, è stato un programma estremamente ricco e articolato quello che ha caratterizzato l’edizione 2011 della manifestazione, tanto che risulta impossibile renderne conto nella sua interezza. Non sono mancate le sezioni storiche – “Ritrovati & Restaurati”, “Alla ricerca del colore dei film”, “Cento anni fa” (quest’anno dedicato al 1911) –, arricchite dalla sezione “Nel cuore del Novecento: Il socialismo, tra paura e utopia” e dai diversi omaggi e tributi: tra gli altri, ad Alice Guy, prima donna riuscita ad affermarsi come regista e produttrice; a Conrad Veidt, volto diventato espressione di un’epoca da Il gabinetto del dottor Caligari a Il ladro di Bagdad fino a Casablanca; ad Alberto Capellani, Luigi Zampa, Eric Rohmer in veste di documentarista e a Maurice Tourneur, cineasta francese che riscosse grande successo a Hollywood con i suoi film muti e padre di Jacques (anche lui regista esportato in America di cui si ricordano Il bacio della pantera e Le catene della colpa). Tra i film di Maurice Tourneur più quotati del periodo Usa vanno citati Una povera bimba troppo ricca (1917), The Blue Bird (1918), L’isola del tesoro (1920) e The Last of the Mohicans (1920). Tornato in patria, non ritrovò più lo stesso smalto dell’epoca americana, ma anche un classico poliziesco come In nome della legge (1932) si fa apprezzare per la sua solidità e maestria tecnica.

Tra le perle della sezione “Ritrovati & Restaurati”, due delle opere più celebri di Marcel Carné: Les enfants du paradis (Amanti perduti, 1945) e Il porto delle nebbie, tratto dall'omonimo romanzo di Pierre Mac Orlan e sceneggiato da Jacques Prévert insieme a Eugen Schüfftan. Considerato oggi il caposaldo del realismo poetico francese, Il porto delle nebbie soffre un po’ il trascorrere del tempo, soprattutto sotto il profilo dei dialoghi e dello sviluppo dei personaggi, ma la sua rilevanza non ne esce ridimensionata. A colpire ancora oggi è l’affascinante caratterizzazione di Le Havre realizzata da Carné, con le sue atmosfere grigie e plumbee, ma soprattutto il legame simbolico che s’instaura tra l’ambiente e i personaggi. L’ineluttabilità del destino, il fatalismo, l’amore impossibile sono i motivi che permeano il film, interpretato da un Jean Gabin – disertore pronto a fuggire in Sud America – in stato di grazia, da Michèle Morgan, che dà il volto a Nelly, la donna che si innamora di Jean, e Michel Simon, il viscido tutore di Nelly, disposto a tutto perché spinto dalla gelosia.

Dopo le retrospettive degli anni scorsi, dedicate a Frank Capra, Josef von Sternberg, John Ford, Vincent Minnelli e Stanley Donen, quest’anno è stata la volta di Howard Hawks, del quale sono stati ricordati grandi capolavori come Scarface (1932), Gli uomini preferiscono le bionde (1953), Il grande sonno (1946), ma anche i primi film muti e sonori, tra cui Fig Leaves, titolo italiano Le disgrazie di Adamo, commedia sulla battaglia tra i sessi, e Barbary Coast (1935), o La costa dei barbari, che offre un inedito ritratto di San Francisco per il quale Hawks s’ispirò all’omonimo volume di Herbert Asbury, autore anche di quel Gangs of New York che ha fornito a Scorsese le basi per il suo film. Se l’America è nata nelle strade, la San Francisco del 1850 colta da Hawks si muove ancora nel fango, invasa dall’onda dei cercatori d’oro e di fortuna. A spadroneggiare è il boss Louis Camalis (un grande Edward G. Robinson), che trucca le roulette del suo locale, corrompe i giudici e fa assassinare i giornalisti scomodi. Il suo unico punto debole è l’amante Swan (Miriam Hopkins), che però non ricambia la sua passione e si innamorerà di un poeta-minatore (Joel McCrea). Si fa apprezzare nella meraviglia del Cinemascope La regina delle piramidi (1955), unica incursione del cineasta nel kolossal storico, privo di battaglie in quanto incentrato sugli intrighi, le violenze e le ambizioni che si alimentano nella corte del faraone Cheope (Jack Hawkins), il quale nutre un’ossessione: essere sepolto insieme al suo tesoro in una tomba funeraria impossibile da violare dai predoni. Stringe perciò un patto con Vashtar (Justice), capo di una tribù fatta prigioniera, e abile architetto: se riuscirà nell’intento, lui e tutta la sua gente saranno liberati dal giogo della schiavitù. A complicare la scena, e a tramare contro il faraone, la sua seconda moglie, l’avida e intrigante Nellifer (Joan Collins). Non un capolavoro, ma comunque un lavoro interessante e godibile, dove spiccano le scenografie davvero straordinarie di Alexandre Trauner e le spettacolari scene di massa rivolte alla costruzione delle piramidi.

D’eccezione è stato anche il parterre di ospiti del festival: Charlotte Rampling, che ha presentato il restauro del film di Luchino Visconti La caduta degli Dei ed è protagonista di The Look (A Self Portrait Through Others) di Angelina Maccarone – altra anteprima del festival –, documentario incentrato sulla figura dell’attrice; il grande Bernardo Bertolucci, Palma d’oro alla carriera all’ultimo Cannes, che ha commentato il restauro del suo Il conformista proiettato in Piazza Maggiore, e poi ancora Fatih Akin, Stathis Giallelis, Tuncel Kurtiz, Giuliano Montaldo, Giuseppe Tornatore, Paolo Poli, Franco Maresco e Gideon Bachmann. Uno dei nomi che ha attraversato in maniera trasversale il programma dell’edizione 2011 è stato ancora una volta Martin Scorsese, da sempre entusiasta e instancabile promotore – con la sue The Film Foundation e The World Cinema Foundation – della conservazione e della salvaguardia del cinema americano, italiano e mondiale. La partnership della Cineteca con Scorsese ha permesso che, in questi anni, in occasione del festival bolognese e non solo, venissero mostrati sul grande schermo capolavori riportati al loro autentico splendore, tesori da scoprire magari per la prima volta oppure da riassaporare. Non era presente di persona, Scorsese, impegnato alacremente a terminare il suo nuovo lungometraggio di finzione, Hugo Cabret, in uscita negli States entro la fine del 2011, tratto dal romanzo di Brian Selznick The Invention of Hugo Cabret, nel quale per la prima volta si è cimentato con il 3D.

Ospite del Cinema Ritrovato è stata Margaret Bodde, produttrice dei documentari del cineasta italo-americano e sua stretta collaboratrice. È stata proprio una delle responsabili della Film Foundation a presentare l’anteprima nazionale di Public speaking al Cinema Ritrovato, nuovo tassello della straordinaria filmografia di Scorsese anche in veste di documentarista, che l’autore ha letteralmente realizzato nei ritagli di tempo, mentre terminava Shutter Island e i documentari A letter to Elia (con Kent Jones) e quello, appena concluso, dedicato a George Harrison. Public speaking ha innanzitutto il grande merito di far conoscere allo spettatore italiano la figura di Fran Lebowitz, intellettuale americana irriverente e dallo humour travolgente che, dopo aver pubblicato due bestseller, Metropolitan Life e Social Studies, e un libro per bambini, Due Panda a New York, è oggi soprattutto un’opinionista, collaboratrice per Vanity Fair e ospite richiestissima di talk show televisivi e conferenze universitarie. Facile anche comprendere il motivo di tanta popolarità, una volta data un’occhiata al documentario, vero e proprio omaggio allo sguardo disincantato, ironico e anticonvenzionale della donna sulla realtà che la circonda, una realtà che lo stesso Scorsese conosce molto bene, trattandosi di New York. Lo spettatore si lascia travolgere con piacere dalle parole che, di fatto, esprimono la visione del mondo di Fran Lebowitz, ripresa mentre parla con Scorsese al ristorante Waverly Inn e in alcune sue performance dal vivo e televisive, tra cui un’intervista con l’amica, e scrittrice, Toni Morrison. Se già nel complesso ma esaltante No direction home Scorsese si concentrava sulla parabola personale e artistica di Bob Dylan, cogliendo però soprattutto l’atmosfera rivoluzionaria che accompagnava quella stagione degli anni Sessanta dal punto di vista politico e sociale, in Public speaking la sua intenzione non si allontana molto da quell’obiettivo: Fran Lebowitz, che lavorò anche per Interview, il mensile creato da Andy Warhol, identifica per il regista di Toro scatenato una testimone chiave dei cambiamenti che hanno attraversato il panorama culturale newyorchese. Dai suoi ricordi e dalle sue esperienze, emerge, infatti, un ritratto senza filtri della società americana, e della “grande mela” in particolare.

Del resto, New York è assoluta protagonista anche del fulgido restauro di Taxi Driver, proiettato nello splendido scenario di Piazza Maggiore in una delle serate del festival, promossa per l’occasione da Gucci: l’operazione di ripristino, realizzata da Sony Columbia, è stata supervisionata da Grover Crisp, ospite a Bologna, che ha spiegato come sia stato necessario partire dai negativi camera originali restaurati digitalmente in 4K. Come ulteriore regalo agli spettatori, che hanno assiepato ogni posto libero possibile sulla Piazza, Scorsese ha inviato un video, trasmesso prima della proiezione, registrato in occasione della presentazione del restauro a New York, nel quale, insieme allo sceneggiatore Paul Schrader, rivela diversi retroscena e curiosità sul film. Ad esempio, l’intenzione iniziale del regista era quella di non utilizzare il celeberrimo yellow cab, il taxi giallo, resosi poi necessario per riuscire a impiegare in modo efficace la macchina da presa. Scorsese ricorda poi il tentativo di precettare il grande Bernard Herrmann per le musiche, in un primo momento non attirato dal soggetto del film, “un tassista”, ma poi convinto a partecipare al progetto. Come hanno ricordato nelle immagini Scorsese e Schrader, Taxi Driver (che fece vincere al cineasta la Palma d’oro a Cannes) è un’opera che ha saputo fondere in un’alchimia tanto rara quanto preziosa, il talento e l’intuizione di tre persone riunite nel momento giusto: Scorsese, Schrader e naturalmente Robert De Niro, artefice di una delle sue performance maggiormente incisive. Il suo Travis Bickle, l’angelo vendicatore di New York, è probabilmente il più iconico degli (anti)eroi scorsesiani, insieme al Jake La Motta di Toro scatenato, all’Henry Hill di Quei bravi ragazzi fino ad arrivare all’Howard Hughes di The Aviator e al Billy Costigan di The Departed, dove l’estrema solitudine si assomma a una carica auto-punitiva e paranoica, alimentata da un ideologismo contorto (Travis vuole ripulire la sua città dalla delinquenza, dalla sporcizia e dalla prostituzione) che fa esplodere tutte le contraddizioni e le pulsioni violente racchiuse nell’animo umano, al contempo sedimentate anche nello scenario circostante.

Sempre Scorsese e sempre un documentario per un altro degli eventi speciali di questa edizione 2011 del Cinema Ritrovato: A letter to Elia, già presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, nel quale Scorsese illustra i motivi per cui i film di Kazan – e in particolare Fronte del porto, La valle dell’Eden e Il ribelle dell’Anatolia (America America) – hanno significato così tanto nella sua vita, soffermandosi sulle emozioni che queste storie, e il modo in cui sono state raccontate sul grande schermo, hanno suscitato in lui, influenzandolo anche nella sua visione di futuro filmmaker. A colpire il giovane Scorsese erano soprattutto i nervi scoperti che Kazan sapeva toccare con i suoi lungometraggi: i conflitti, personali, familiari e sociali, il tema dell’identità, delle proprie radici (essendo anche Kazan figlio di una generazione migrante), restituendo un’immagine più cruda e realistica, meno patinata, dell’America. Nel rendere omaggio alla figura di Elia Kazan, grande innovatore del teatro con i suoi allestimenti da Tennessee Williams e Arthur Miller, ma anche del cinema grazie solo all’influenza che esercitò sulla recitazione, Scorsese parla anche di sé, del ruolo del regista e di ciò che lo spinge a continuare a fare film. Non viene omessa la pagina più oscura e controversa della vita e della carriera di Kazan: la sua denuncia nei confronti di colleghi aderenti al partito comunista alla Commissione per le attività antiamericane. Un gesto che in molti a Hollywood non gli hanno perdonato, come emerse dalla serata degli Oscar nella quale il regista di Un tram che si chiama desiderio ritirò la statuetta per il riconoscimento alla carriera. Forse anche lui non si perdonò mai del tutto, come dimostra la sofferta gestazione di un film proiettato in quest’edizione del Cinema Ritrovato, Salto mortale (1953). Il festival ha, infatti, dedicato alla figura di Kazan un vero e proprio tributo (proseguito anche al termine della rassegna), presentando anche il restauro de Il ribelle dell’Anatolia (America America), realizzato dalla Warner Bros con il sostegno di The Film Foundation e della Hollywood Foreign Press Association, e Fango sulle stelle (1960).

Salto mortale (1953), pur ottenendo ottime critiche l’anno in cui uscì, oggi viene spesso dimenticato nelle retrospettive dedicate al regista. Il film non rientra, in effetti, tra i suoi lavori più memorabili; lo stesso Kazan non era affatto convinto di voler dirigere la pellicola a causa del soggetto: la storia di un circo cecoslovacco il cui direttore Karel Cernik (l’ottimo Fredrich March) decide di fuggire dalla gabbia delle pesanti interferenze politiche imposte dal comunismo e progetta di oltrepassare il confine nella zona di controllo americana della Germania. Il piano di fuga prende corpo nel corso del film intrecciandosi con le dinamiche relazionali private del direttore, che deve fare i conti con i rapporti, forse compromessi, con la moglie e la figlia. Nonostante si tratti di un’opera travagliata (sono almeno venti i minuti di tagli operati dalla produzione) e non pienamente convincente, Salto mortale merita comunque una visione per il finale teso e commovente, e per lo sguardo sempre personale di Kazan, riflesso soprattutto nella rappresentazione degli artisti e dei lavoratori del circo, cosmopoliti, nomadi, diversi dalla gente comune, nei quali il cineasta si riconosceva perfettamente.

 


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