Solaris: nuovi spazi e scelte PDF 
Alberto Boldini   

La percezione del vuoto si misura attraverso quella spaziale della perdita; il miraggio di una (impossibile?) seconda possibilità si scontra con quella che ci appare come una vera e propria patologia psichica, quella della consapevolezza dell’irrimediabilità del passato. Ecco i due pilastri su cui si regge l’apparente remake made in Usa, a 30 anni esatti dall’uscita dell’originale, di uno dei capolavori di A. Tarkovskj.

Apparente perché come remake del film russo è stato spacciato fin da prima della sua uscita (2002), quando in realtà il regista Steven Soderbergh ha realizzato lo script direttamente a partire dal romanzo di Stanislaw Lem; già se ci soffermiamo brevemente su un analisi del suo image system, i richiami visivi del film vengono ricondotti preferibilmente a un immaginario fantascientifico quasi Kubrickiano (ovviamente [i]2001 odissea nello spazio[/i], nella costruzione a volte per così dire razionalistica dell’inquadratura, e in minima parte nell’utilizzo della luce) che non all’originale (o meglio, chiamiamolo primo adattamento). Fin dall’inizio Soderbergh sembrerebbe evitare il confronto con lo scomodo predecessore, anche se il rapporto con il romanzo non è ugualmente dei più facili, poiché il tradimento si realizza in gran parte in un’attenta ricostruzione psicologica della storia sentimentale fra Chris e Rehya (da quella che potremmo superficialmente definire come “prototipo” fino alle sue numerose repliche successive), lasciando quindi libera di scorrere in secondo piano (o meglio sullo sfondo, ma come una realtà costantemente presente e necessaria nella sua immanenza) la vicenda cosmologica del pianeta “Solaris” in sé

Spazi e corpi

Fin dall’inizio siamo immediatamente partecipi della misura della perdita del protagonista; un Chris solo in una casa nella quale ancora si ode l’eco di una precedente presenza, testimoniata dall’attento utilizzo della voice over. Questa rimarrà una costante per tutto il resto dell’incipit; il personaggio ci appare in tutta la sua tragicità poiché viene calato in uno spazio che per lui è costantemente ingovernabile, eccessivo, e sovente viene ripreso di spalle, o appiattito, come nel caso della conversazione, nel suo appartamento, con i due emissari che gli propongono la missione (durante il dialogo la macchina da presa lo fissa ossessivamente senza ricorrere ad un prevedibile controcampo), per accentuare la frattura e la separazione fra il suo corpo e quello dei vari comprimari che si alternano nelle inquadrature del film. Durante il resto del film la compresenza dei corpi all’interno della stessa inquadratura (eccezion fatta per i flashback, le rinnovate interazioni con Rehya e volendo anche il ritrovamento dei cadaveri all’ingresso nell’astronave) si rivela un evento piuttosto raro; in un significativo totale all’interno di una delle cabine del satellite, i corpi di Jeremy Davies e George Clooney si trovano agli estremi dell’inquadratura, precludendo qualsiasi possibilità di contatto, accentuandone il distacco emotivo e la diffidenza reciproca.

La sola interazione fisica, unica possibilità di ricomposizione della separazione con la dimensione spaziale attraverso il ricollocamento del proprio corpo e il ridimensionamento di una tale ingestibile spazialità , è rappresentato appunto dal recupero, al presente, di quello di Reyha, che finalmente sembra donare serenità al travagliato protagonista, restringendo attorno a loro i margini dell’inquadratura. In questo senso esemplare è la scena finale, nella quale il corpo di Rehya (l’ultima) priva lo spazio ambientale (in questo caso l’appartamento di Chris) delle sue connotazioni minime, riducendolo a puro sfondo monocromatico sul quale i corpi sono liberi di mettersi in scena da sé.

(Ri)congiungimenti, scelte

La splendida sequenza che mostra l’arrivo del (primo) “clone” di Rehya è composta dall’alternanza del flashback, dell’immagine di Solaris e del primo approccio della nuova Rehya con un Chris inizialmente addormentato; il flashback può quindi essere facilmente ricondotto ad una dimensione onirica (neppure tanto inconscia), materia prima per l’opera del pianeta pensante / demiurgo, il quale appunto riversa all’interno dell’astronave (presumibilmente il presente) il sogno (un indimenticato passato), o almeno una copia di esso. Già dal primo “contatto” ci viene manifestata quale sia la natura replicante, falsa ai nostri occhi (poiché già nell’atto di riprodurre un corpo originale ne tradisce l’unicità) , di una tale entità.
A questo punto è necessario operare un breve paragone con il film di Tarkovskj, ma solamente in termini di diverse metodologie dell’adattamento. Se nel capolavoro russo il finale rivelava sostanzialmente il nostro pianeta come semplice proiezione mentale di Solaris, il film di Soderbergh accentua ulteriormente l’ambiguità di Chris, e di una sua scelta che nell’adattamento precedente non poteva avvenire. Le inquadrature finali ci mostrano infatti il protagonista in viaggio alla volta di Solaris, consapevole quindi di dirigersi verso una dimensione completamente illusoria ma almeno consolatoria, rispetto al pianeta d’origine che per lui ormai non può più significare molto; una possibilità che invece nel film di Tarkovskj non esisteva, proprio perché Solaris si rivelava essere il “tutto”, senza possibilità di alternative (facendo quindi decadere il significato di realtà) ma al limite di declinazioni particolari (anche ripetitive, negando qualsiasi possibilità della vita umana come evento unico e irripetibile). Il dilemma, casomai, diventa ora quello della nuova vita che essa simboleggia e prefigura, con l’inaspettato ritrovamento della felicità da una parte e dall’altra la consapevolezza della sua natura puramente illusoria, o almeno replicante, a complicare notevolmente la ricomposizione dell’equilibrio. Chris inizialmente elimina la primissima “copia” di Rehya, poiché riconosce come totalità ontologica il pianeta Terra, e in questa realtà lei è morta; ma alla fine non è certo costretto ad accettare senza possibilità di appello un’esistenza, quella di Solaris, che non è affatto esclusiva, condizione invece necessaria per il suo predecessore Kris. 

 


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