Sidney Pollack: il movimento della vita PDF 
di Aldo Spiniello   

Una delle fortune del cinema hollywoodiano "classico" è stata la possibilità di avere a disposizione registi in grado di cimentarsi con qualsiasi genere. Un nome su tutti: Howard Hawks. Era capace di fare tutto e, per di più, lo faceva egregiamente. Forse nessuno più di lui è passato con tanta disinvoltura dal gangster movie al noir, dalla "screwball comedy" alla commedia sofistica anni Sessanta, dal film di guerra al western. Altrettanto, seppur con minore eclettismo, è stato fatto da altri registi: si pensi a Billy Wilder, a Fritz Lang, a John Huston, per non parlare di Robert Aldrich, Delmer Daves e via dicendo. E la gran parte di essi hanno saputo attraversare una varietà infinita di argomenti, conservando una sostanziale fedeltà a se stessi. Che cosa distingue un vero autore da un onesto regista, se non proprio la capacità di far emergere, al di là della varietà di toni, ambienti, generi, un nucleo poetico più o meno sotterraneo, una cifra personale, in altri termini uno stile?

Purtroppo questa risorsa del vecchio cinema americano sembra essersi persa nelle nuove generazioni. Tuttavia esiste ancora qualcuno in grado di raccontare storie a modo suo, di affabulare il pubblico e spingerlo a riflettere, di rendere omaggio ad un genere e seminare dubbi e idee. A cominciare da qualche splendido settantenne, Clint Eastwood su tutti. E Sydney Pollack è probabilmente uno di questi, uno degli ultimi esempi di regista che nel corso della sua carriera è passato, con eleganza e sicurezza, da un genere all'altro, senza mai scadere nelle trappole banalizzanti delle regole e dei canoni. Nato il 1º luglio del 1934 a Lafayette, nell'Indiana, da una famiglia di immigrati russi ebrei, Sydney Pollack studia da attore negli anni Cinquanta alla corte di Sanford Meisner, al prestigioso New York's Neighborhood Playhouse. Intraprende inizialmente la carriera televisiva, ma il cinema è dietro l'angolo. In oltre quaranta anni di carriera Pollack ha attraversato il mondo dello spettacolo a 360 gradi. Da regista, esordendo nel 1965 con La vita corre sul filo, con Sydney Poitier ed Anne Bancroft, curioso dramma in cui un volontario del "telefono amico" tenta in tutti i modi di evitare il suicidio di una donna. Da attore, in ossequio alle sue origini, Pollack ha lavorato, in parti tutt'altro che secondarie, con registi del calibro di Woody Allen (Mariti e mogli), Robert Zemeckis (La morte ti fa bella), Robert Altman (I protagonisti), Stanley Kubrick (Eyes Wide Shut). Per non parlare dei ruoli che si è spesso ritagliato nei suoi film: l'agente teatrale in Tootsie (tra l'altro film omaggio al mestiere dell'attore), il consulente elettorale in Destini incrociati, il dirigente dei servizi segreti in The Interpreter. E poi, più di recente, Pollack ha anche intrapreso la carriera da produttore, è stato attivamente impegnato nell'organizzazione del Sundance Film Festival, a fianco dell'attore e amico Robert Redford. Sicuramente non è poco. Ma ciò non toglie che l'attività principale di Pollack, quella in cui ha dato i risultati migliori, rimanga quella da regista.

Diciannove film in quaranta anni. Pollack ha lavorato sul thriller (I tre giorni del condor, Il socio, The Interpreter), il melodramma (Questa ragazza è di tutti, Non si uccidono così anche i cavalli?, La mia Africa), il western (Corvo Rosso non avrai il mio scalpo), il noir (Yakuza), la commedia (Tootsie), i film di guerra (Ardenne '44: un inferno), ha guardato al passato e al presente, ha fotografato la grande metropoli e si è immerso nella natura, ha reso omaggio ai classici (Havana fa il verso a Casablanca) e non si è tirato indietro davanti alla moda del remake (Sabrina). Con occhio sempre attento alla società, Pollack ha affrontato tematiche importanti. Ha contribuito al ripensamento del genere western, riflettendo sui rapporti tra bianchi e indiani; è stato tra i primi a mettere in rilievo i complotti dei servizi segreti, denunciando gli interessi americani in Medio Oriente; ha denunciato il maccartismo in anni in cui ancora dominava una certa omertà sull'argomento e ha tracciato un bilancio generazionale sui sogni e le speranze della sinistra americana; ha parlato del giornalismo d'assalto in Diritto di cronaca, ha parlato di femminismo, di rapporto tra sessi, fino al recentissimo The Interpreter, in cui ha delineato un quadro non proprio roseo sulla cooperazione internazionale e sul pericolo del terrorismo.

Ne emerge il ritratto di un regista "attivista", di un fervente democratico attento alle problematiche sociali e politiche. Ma aldilà di questo carattere, per così dire, "interventista" di Pollack, di questa attenzione alle singole questioni, si può rintracciare un filo rosso che colleghi le sue opere in un percorso personale? Lo stile forse? In parte. Ma per un regista come Pollack probabilmente non è questione di stile. Fedele all'idea che il cinema debba essere innanzitutto spettacolo, il suo occhio è sempre funzionale alle storie che racconta. Se nei film degli esordi Pollack si lascia andare a qualche sperimentalismo, lavorando soprattutto sulla contaminazione dei generi (il western e la commedia in Joe Bass l'implacabile) e sulle strutture narrative, attraverso il flashback (Questa ragazza è di tutti) e il flashforward (Non si uccidono così anche i cavalli?), nel corso degli anni il suo stile si è fatto sempre più "classico", attento alla comprensibilità e ai rapporti di causa ed effetto. Ciò non toglie l'assoluta eleganza e maestria in ogni situazione: i perfetti meccanismi comici in Tootsie, la capacità di seguire i volti degli attori, le dinamiche degli sguardi, così da "far parlare in silenzio" le scene (sempre in Tootsie è splendido il gioco d'inquadrature su Michael/Dorothy, Julie e Les mentre siedono a tavola), la capacità, nei momenti migliori, di rendere "espressivi" gli ambienti (il paesaggio innevato di Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, simbolo di una natura incontaminata, da riscoprire, ma non del tutto "facile da vivere", o ancora il Palazzo delle Nazioni Unite in The Interpreter, che diviene vero e proprio palcoscenico della politica e dell'intrigo). Ma Pollack è grande soprattutto nel (ri)creare la tensione, e non solo - come dovrebbe essere ovvio - nei thriller (I tre giorni del condor è insuperabile in questo senso). Anche in un film minore, non del tutto risolto, come Destini incrociati, la prima mezz'ora è un continuo crescendo, in cui il rigido e metodico montaggio alternato è scandito dalle voci in sottofondo che parlano di un disastro aereo: sulla quotidianità dei due protagonisti incombe l'oscuro presagio del Fato.

In realtà, il nucleo profondo della poetica di Pollack va rintracciato tra le pieghe nascoste delle sue storie. C'è un leitmotiv che collega la maggior parte di esse e che si può innanzitutto identificare nella dicotomia verità/menzogna. In thriller come I tre giorni del condor, Il socio, The Interpreter è più evidente. C'è un protagonista che è vittima ignara di un complotto, a poco a poco se ne rende conto e comincia a ricercare la verità, l'unico modo per salvare la pelle. Ma anche altrove è rintracciabile questa dialettica. In Destini incrociati, il sergente Van Den Broeck non riesce a sopportare l'infedeltà della moglie, inizia ad indagare sul suo passato, fino ad incontrare Kay. E non è un caso che l'unico remake (per altro poco riuscito) affrontato da Pollack sia proprio Sabrina. Il capolavoro di Wilder che cos'è se non un gioco in cui tutti cercano di nascondere la propria realtà, appaiono diversi da quel che sono o fingono per apparire diversi? Si pensi, poi, a Tootsie, commedia di maschere e camuffamenti. Qui la finzione viene utilizzata dallo stesso protagonista, che si traveste da donna per sbarcare il lunario. La menzogna è tutta interna al singolo, ma anche il contesto non ne è immune: Julie si barcamena nel suo rapporto senza futuro con Ron, la fiction per cui viene scritturata/o Dorothy/Michael è quanto di più fasullo possa propinare la TV spazzatura. Tuttavia, in Tootsie, la finzione cui si sottopone Michael è anche lo strumento che lo porta all'acquisizione di un'altra verità sui rapporti uomo-donna, il mezzo attraverso cui s'impara a conoscere meglio gli altri.

Ecco un diverso punto focale: l'altro. Alla dicotomia verità-menzogna si aggiunge quella tra sé e l'altro. Come per Mitch McDeere, protagonista de Il socio, l'acquisita consapevolezza dei segreti e delle ipocrisie dei suoi colleghi è il primo passo verso un processo di crescita interiore, così altrove l'incontro con l'altro da sé è la premessa di una maturazione o, comunque, di un ripensamento del diverso. In Corvo rosso non avrai il mio scalpo Jeremiah Johnson stringe amicizia con gli indiani e, seppur una convivenza pacifica si dimostri probabilmente impossibile, impara a guardarli con occhi diversi. E così in Yazuka, la frizione tra l'americano Harry Kilmer/Robert Mitchum e la misteriosa cultura giapponese porta i protagonisti a un cambiamento interiore. Che sia la menzogna o il diverso, nei film di Pollack c'è quasi sempre un evento, un accadimento, un qualcosa o un qualcuno che innesca un processo di cambiamento e maturazione. Anche in un film minore come Un attimo, una vita, il personaggio di Al Pacino, colpito dalla morte in gara di un amico, si mette in cammino alla ricerca della verità e trova l'amore. Così nell'ultimissimo The Interpreter: l'incontro tra Silvia Broome e Tobin Keller in qualche modo segnerà le loro vite, li modificherà. Che poi questo percorso interiore porti alla felicità o alla sconfitta non è dato saperlo: le situazioni cambiano, così come cambiamo noi. Ciò che conta è che nei film di Pollack c'è questo movimento. C'è, in altri termini, la vita. Ed è una vita che non possiamo costruire da soli (come sognava Jeremiah Johnson), ma sempre con, o per colpa, degli altri.

 


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