Grindhouse. Cinema di quartiere e B-movies. PDF 
Alessandro Avanzi   

Quentin Tarantino dà nuova prova di quella sua capacità di fare un cinema tangibile e palpabile, attraverso l’ormai consolidato uso di una macchina da presa invasiva nei dialoghi ed oltremodo manifesta alla percezione dello spettatore. La pellicola scorre di fronte alla croce di Malta come un B-movie degli anni ‘70, provata dal tempo e corrotta nella sua fisicità con le conseguenti distorsioni a livello sonoro e visivo. Non a caso il titolo del film è Grindhouse, termine che veniva usato negli anni ’60 e ’70 per indicare quelle salette cinematografiche di quartiere in cui si proiettavano film di secondo piano come i black movie o di kung fu.  Il regista mette così in scena dei personaggi tipicamente tarantiniani emblemi di una degenerazione sociale, che vivono del sadismo delle proprie azioni. Anche i personaggi “buoni” nei quali lo spettatore maggiormente si riesce ad identificare sembrano bombe ad orologeria sempre sul punto di esplodere alla minima scintilla o provocazione. Tarantino evita di consegnare allo spettatore un punto di vista univoco, privandolo di conseguenza della possibilità di aderire emotivamente ad un personaggio in particolare ed insinuando una sensazione di instabilità facilmente digeribile da chi si definisce un tarantiniano, abituato a questo tipo di regia.

La prima parte della storia, spesso messa in secondo piano a causa di leziosità tecniche di montaggio ed inquadratura che da anni rientrano nello stile che il regista ha disegnato sulla sua persona, ha luogo nella cittadina Texana di Austin, entrata nelle leggende americane dell’800 come luogo scelto da Jack lo Squartatore per le sue violenze. Risulta così ad hoc la scelta della location da parte del ragazzaccio di Hollywood, che costruisce così l’ambientazione migliore per le depravazioni e le violenze sadiche al personaggio di Stuntman Mike interpretato da Kurt Russell. Procedendo nella visione del film incontriamo diversi momenti di stasi narrativa in cui il centro dell’attenzione è occupato da lunghi dialoghi ripresi in continuità in cui i protagonisti rivangano ubriacate e avventure precedenti piuttosto che fantasiosi incontri con l’altro sesso.

Dialoghi come quello che ha luogo tra Emi, Zoe, Abernathy e Lee in netta opposizione tematica rispetto alla celeberrima discussione in Le Iene sulle ragioni per cui Madonna scrive [i]Like a Virgin[/i], raccontano donne decisamente emancipate e padrone della propria vita, capaci anche di orchestrare la furiosa vendetta che prende forma nel finale. Self made woman come quelle messe in scena dal regista nei sui film precedenti quasi sempre impersonate dalla magnetica Uma Thurman. Donne che scoprono i propri piedi in una sorta di rituale erotico prestabilito o inscenano una lap dance, attirando a sé un killer inappagabile che ricambia le provocazioni, e soprattutto il piacere che ne deriva, privandole della vita stessa. Un ringraziamento ed allo stesso tempo una punizione per la loro emancipazione.

Il richiamo che Stuntman Mike sembra subire nei confronti dei piedi delle sue vittime sottolinea una sorta di feticista passione che il regista ha manifestato nei confronti delle sue protagoniste nei film precedenti, si ricordino ad esempio Mia che balla a piedi nudi in Pulp Fiction o Beatrix Kiddo che inscena un dialogo con i propri piedi inquadrati in primissimo piano in Kill Bill Vol.1, e ce ne sarebbero molti altri; peraltro Tarantino decide di aprire i titoli di testa con l’ennesima inquadratura in primo piano dei piedi smaltati di Jungle Julia, in continuità con il suo personalissimo voyeurismo feticista.  Come di consueto Tarantino firma il suo lavoro con un cameo che lo vede interpretare il personaggio di Warren, curioso proprietario del locale in cui Stuntman Mike conosce e conquista la fiducia delle future vittime, il Guero’s.

La musica è come al solito alla base dei film di Tarantino e ci riporta anch’essa a suoni e rumori anni ’70, proprio come aveva già fatto con i precedenti lavori. Una colonna sonora che guida i personaggi verso le proprie epifanie e rivelazioni al pubblico. Esemplare in questo senso l’utilizzo di It’s so easy di Willy Deville riprodotta dalla autoradio di Stuntman Mike durante il primo incontro con Abernathy e Lee. Sui versi “You know you're sliding down, Against your heart, Yeah, you got one, Just close your eyes, So you can see. No baby, I don't care What they say, It's so easy” Stuntman Mike si presenta come una sorta di corteggiatore alle future vittime chiedendogli espressamente di concedersi a lui senza privazioni. Ancora evidente come la collaborazione con Rodriguez, ormai al secondo capitolo, stia segnando fortemente lo stile registico ed in particolare le scelte che Tarantino opera a livello fotografico. Quel forzato contrasto tra bianco e nero e colore che caratterizzava Sin City, giustificato in quel caso dalla realizzazione di un film-fumetto, ritorna in Grindhouse in forme più lievi: colori sgargianti vanno così in contrasto con atmosfere tetre e notturne, fino ad arrivare ad intere sequenze girate in bianco e nero. Attraverso Rodriguez, il regista esaspera i gusti splatter, peraltro da sempre latenti nelle opere di Tarantino se si pensa a film come [i]Le Iene[/i] o all’episodio da lui diretto in Four Rooms. L’eccesso splatter risulta invece centrale nella direzione che Rodriguez fa di [i]Planet Terror[/i], film presentato in Italia come secondo capitolo di Grindhouse, nel quale il regista texano sfoga a pieno il suo stile eccentrico, raggiungendo a tratti il grottesco.

Infine non si può non parlare dell’importanza delle automobili in questo film, nello specifico una Dodge Challenger del ’70 bianca che rimanda alle fantasie della passata generazione, esplicita citazione del cult movie del 1971 di Richard C. Sarafian Punto Zero (Vanishing Point). Tarantino sceglie infatti di ambientare la maggior parte delle scene del film all’interno di automobili, sottolineandone il potere adrenalinico della velocità che pervade ogni singolo momento di questo lavoro. A conferma di ciò il regista dirige la stuntman Zoe Bell nei panni di sé stessa e inserisce così momenti di alta tensione, permettendo al binomio pericolo – velocità di andare a ricoprire un ruolo di assoluta importanza. Grindhouse si colloca così perfettamente nel percorso cinematografico del regista come apice di una filmografia costellata da lavori spesso etichettati come mere prove di citazione autoreferenziale di un cinema ormai chiuso ed irripetibile. Il pubblico appassionato si divide così tra coloro che apprezzano gli inserti splatter alla Rodriguez ed una minore attenzione alla storia, conseguenza di un’evoluzione registica in corso da diversi anni, e quelli che rimpiangono i balletti della Thurman e Travolta e dei salti temporali alla Pulp Fiction.

In sintesi Tarantino regala al suo pubblico un concentrato di sadismo, erotismo e ode alla velocità.

 


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