Il cinema della soglia: Peter Jackson PDF 
Aldo Spiniello   

C’è un curioso scarto all’apparenza difficilmente comprensibile nella filmografia di Peter Jackson, una frattura tra lo splatter low budget degli esordi e i kolossal ambiziosi e definitivi del periodo hollywoodiano. Si tratta di uno scarto che non è solo produttivo, ma che riguarda ancor più i toni. Dall’ironia corrosiva e demenziale dei primi film, letteralmente invasi di sangue e budella, si passa, come se niente fosse, alle atmosfere drammatiche e malinconiche di quelli successivi. Ma è un passaggio che, a ben guardare, non dipende semplicemente dal "cambiamento d’aria", dalla trasferta in terra americana. Perché il suo momento cruciale è costituito da un’opera ancora prodotta e girata in Nuova Zelanda, l’ormai celebre Creature del cielo (Heavenly Creatures, 1994), storia vera di due adolescenti (interpretate da Melanie Lynskey e da una Kate Winslet non ancora traghettata alla gloria dal Titanic) che negli anni Cinquanta si macchiano di un crimine efferato. È qui che Jackson imprime una sterzata al suo cinema, da un lato piegando verso toni decisamente drammatici e temi "seri" (come se si potesse fare una classifica), dall’altro entrando di prepotenza in una dimensione mainstream, che non abbandonerà più.

Di fatto, pur restando legato a un’idea d’indipendenza e continuando a portare avanti la sua parallela attività di produttore (con la WingNut Films), con Creature del cielo Jackson sembra "normalizzare" il proprio cinema, rispetto ai precedenti film, che perseguivano apertamente scelte visive estreme. In effetti Fuori di testa (Bad Taste, 1987), Meet the Feebles (1989), Splatter – Gli schizzacervelli (Braindead, 1992) sono manifestazioni evidenti di uno spirito irriverente, di uno sguardo anarchico che mescola immagini ed effetti ai limiti dell’efferatezza con un’ironia che non ha paura dell’idiozia più spinta, lasciando intravedere, tra le pieghe del racconto, i germi di un discorso politico sociale ancora superficiale, ma non certo banale. Negli improbabili alieni di Fuori di testa, alla ricerca di carne umana da smerciare nei fast food del loro pianeta, non è difficile scorgere una critica degli eccessi e degli abusi della società consumistica. Il pensiero corre a Romero, nonostante le differenze di approccio e di profondità. E del resto, a confermare la presenza di questa suggestione forte, sono proprio gli zombie di Splatter, metafora per eccellenza dell’omologazione mortifera e mortificante della contemporaneità. Ma aldilà delle letture più o meno facili, ciò che resta di questi primi horror di Jackson è la capacità di imperniare il racconto intorno a esigenze spettacolari, che prevalgono su ogni altra cosa: la verosimiglianza delle strutture narrative, la linearità delle progressioni, la stessa precisione del linguaggio filmico ... Il cinema è innanzitutto entertainment, e partendo da questa premessa i primi film indipendenti già rientrano in un’ottica mainstream. Lo spettacolo su tutto. È un tema fondamentale, che attraversa, dall’interno e dall’esterno, tutto il cinema di Jackson. Del resto, anche dopo la "normalizzazione", nei film del regista neozelandese restano le tracce degli esordi. Come segni di un horror ininterrotto che si dipana film dopo film. Già a partire dall’incipit di Creature del cielo, con quella corsa disperata nelle foreste tra urla e strepiti, richiamo più o meno esplicito alla foresta infestata di alieni dalle sembianze umane di Bad Taste. Per continuare poi in Sospesi nel tempo (Frighteners, 1996), nella trilogia de Il signore degli anelli, in King Kong (si pensi solo alle scene sull’isola del teschio), nell’ultimo Amabili resti (le visioni dell’assassino nella vasca da bagno…).

Ma il discorso si può anche generalizzare, notando come, in realtà, in Peter Jackson siano sempre ben presenti e riconoscibili i segni del cinema di genere. Non solo l'horror, dunque, ma il fantasy (amato e omaggiato sino alle origini di King Kong, remake atto d’amore definitivo), il poliziesco e il thriller (le indagini di Amabili resti), la commedia, in un modo o nell’altro onnipresente, e soprattutto il melò, che dà al cinema di Jackson un’assurda impressione di intimità, nonostante la magniloquenza della forma. Un cortocircuito che già appare nella trilogia de ll signore degli anelli e che però rimane come sottotraccia, sommerso dalla maestosa architettura narrativa tolkeniana. Fino ad erompere in maniera definitiva e vertiginosa in King Kong, film che vive di ossimori, di contrasti tra il mostruosamente grande e il meravigliosamente piccolo. Al punto che ogni grande scena di azione, ogni piano di insieme, ogni totale, ogni mirabolante trovata visiva sembra soltanto preparatoria rispetto ai tenerissimi giochi di sguardi e d’amore tra il gorilla e Ann Darrow/Naomi Watts. Quando la bestia e la bella improvvisano il loro ballo sul ghiaccio di Central Park, ci ritroviamo, come per incanto, catapultati in un film piccolo, una specie di commedia romantica calda e accogliente come una casa. È il segno di un cinema che, nonostante le esigenze dello show business, non può e non sa rinunciare ai sentimenti e all’emotività. Proprio come accadeva nei bei tempi andati.

L’ibridazione, la consapevolezza del postmoderno, la tecnologia non congiurano contro un classicismo di fondo, che nasce dalla partecipazione totale nei confronti dell’immaginario cinematografico. Da qui il sogno del grande kolossal, dello spettacolo perfetto, del sogno da dare al grande pubblico. Non è certo un caso che anche un film low budget come Bad Taste abbia richiesto quattro anni di lavorazione: nonostante i pochi soldi, le difficoltà economiche, tutto dove quadrare. Una maniacalità che va di pari passo con l’amore per il cinema. Del resto, è Jackson stesso che ha confessato che il suo più grande sogno era quello di rifare il film che lo aveva avvicinato al cinema, il capolavoro di Cooper e Schoedsack. Un’altra ossessione (come quella per Tolkien), che ci porta naturalmente a identificare Jackson con il più ossessivo dei suoi personaggi, il pazzoide Carl Denham, il regista che, pur di inseguire il suo sogno di offrire al pubblico il mistero e la meraviglia al prezzo di un biglietto di ingresso, non esita a scatenare l’inferno. Un personaggio che appare negativo, ma che in realtà custodisce il senso, come rivela la scena finale. E il fatto che nei panni di Denham ci sia il corpo-comico devastante di Jack Black è solo un altro segnale dell’irriverenza provocatoria del cinema di Jackson.

Ma King Kong mette in campo un altro tema: l’attrazione fatale tra il reale e il virtuale, tra l’immagine naturale di Naomi Watts e quella ricostruita a computer di Kong/Andy Serkis. Il che rimanda a un gioco d’amore tra il vero e il falso, tra, fuor di metafora, la vita e la morte. E, su questo punto, torna ad esser decisivo l’altro grande film di Peter Jackson: Sospesi nel tempo, storia soprannaturale di uno scacciafantasmi (il grande Michael J. Fox) che si ritrova a lottare contro lo spettro di un serial killer. Solo all’apparenza una facile commedia dalle sfumature fantasy-horror ... In realtà l’incontro con Robert Zemeckis rappresenta per il regista neozelandese il primo vero tentativo di dare ben altra sostanza al suo cinema. Perché The Frighteners è il ritratto malinconico di un mondo tra la vita e la morte, un universo popolato di spettri che cercano una via d’uscita e di uomini che si affannano dolorosamente per dare un senso all’incomprensibilità del lutto. È in questo spazio liminare che si muove l’anima profonda della poetica di Jackson, sospesa, quasi truffautianamente, tra il provvisorio e il definitivo. La conferma arriva puntuale con l’ultimo Amabili resti, tratto dal romanzo omonimo di Alice Sebold, sebbene il film sia per certi aspetti poco convincente, soprattutto nella descrizione della dimensione fantastica di questo limbo in cui si agitano le anime delle adolescenti assassinate. Qui appaiono in tutta la loro evidenza i limiti di un cineasta che si sforza di raggiungere ad ogni costo la meraviglia, affrontando di petto il rischio della caduta e del kitsch estremo. Ma, aldilà dei difetti, restano la forza misteriosa e il coraggio di un cinema che si pone continuamente sulla soglia. Tra questo e un altro mondo, il reale e il fantastico, lo spettacolo grandioso e il fremito del cuore, tra l’orrore e la tenerezza, il cattivo gusto e l’incanto, il dolore e l’ironia.

 


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