Pietà PDF 
Andrea Mattacheo   

Il privato di un regista - come quello di qualunque altro “artista” (sorvoliamo, virgolettando, sull’ambiguità del termine) - non dovrebbe, ad avviso di chi scrive, essere il centro degli svariati processi di esegesi dell’opera messi in atto dai lettori/interpreti. È rischioso, sminuente, e allo stesso modo spesso rassicurante, rifugiarsi nei territori dell’io autoriale per affrontare l’analisi di un testo. Eppure, in alcuni film le “istruzioni di lettura” rimandano con forza alla vicenda di chi sta dietro la macchina da presa, e la natura autobiografica si manifesta senza che l’autore si esprima in maniera diretta tramite la prima persona (che tra l’altro al cinema, per lo meno a quello di finzione/narrazione, è forse ontologicamente negata).

Pietà è un testo di questo tipo, un film nel quale Kim Ki-duk compie la definitiva rottura con un passato etico e stilistico diventato forse esteticamente, e sopratutto emotivamente, insopportabile. Se visto insieme alle due precedenti prove del regista sudcoreano da luogo a un percorso che espone la necessità di una  lettura “psicoanalitica”, pertinente o perlomeno lecita nella misura in cui è l’autore stesso ad aver scelto di “mettere in scena” la propria crisi depressiva. Una crisi dovuta all’incidente occorso sul set di Dream (2008) all’attrice protagonista - rimasta quasi impiccata durante una ripresa e salvata dallo stesso regista -, in seguito al quale Ki-duk ha scelto di isolarsi dalla cattiveria del mondo in una baracca periferica, dove freddo e neve lo allontanavano anche epidermicamente dal calore rassicurante e artificiale della civiltà. La sua depressione Kim Ki-duk ha voluto appunto narrarla e mostrarla in Arirang, resosi conto dopo tre anni di avere ancora l’urgenza di dire qualcosa attraverso il mezzo cinema ma di non essere in grado di parlare d’altro se non della propria sofferenza; di non trovare più la parola (l’immagine, il segno) che era stata la cifra (apprezzata e riconosciuta) dei suoi film e che era ormai morta. Estraniato da se stesso, vedendo collassare la propria “presenza”, il regista, chiuso nel suo eremo arrugginito, si chiede con ostinazione brutale lasciando che la camera faccia da testimone: Cosa sei? Se vuoi ancora esprimerti come puoi farlo? Puoi essere compreso per ciò che sei realmente se non hai la certezza di esserlo? Con Arirang Ki-duk ha trovato nella forma di un particolare memoir visuale, a cavallo tra documentalità e finzione (definirlo mockumentary sarebbe fuorviante e riduttivo), l’unico modo per poter tornare a fare la sola cosa che lo distingue come sé e come individualità. La sua terapia contro lo spaesamento interiore e l’afasia è proseguita passando per Amen (2011), altro “oggetto visivo” in cui l’apparato cinematografico viene ridotto ai minimi termini (regista/attore, attrice, macchina da presa e nulla più), altro tentativo di restituire senza filtri la propria sfiducia nei confronti dell’umanità intera e allo stesso tempo di tornare a raccontare, seppur in maniera minima, una storia.

Eppure, malgrado gli intenti confessionali ed espiatori, sia Arirang che Amen non mi pare possano essere considerati a tutti gli effetti quali momenti di rottura. In primo luogo perché - anche se può sembrare un po’ anacronistica come distinzione in tempi di medialità espansa e cinema al quadrato - entrambi sono “esperienze visive” più vicine alla video arte che al “film” (da intendersi come prodotto audiovisivo retto da un impianto narrativo e tralasciando il progressivo avvicinamento dei due campi in tanto cinema “d’autore” contemporaneo). Inoltre, seppur realizzati in condizioni di totale precarietà, entrambi conservano ancora un legame formale evidente con la produzione passata di Kim Ki-duk, un’attenzione e una ricercatezza dalle quali il regista sembra voler fuggire senza pero riuscirci del tutto. In uno dei momenti più intensi di Arirang, Ki-duk ci interroga dicendo: “avete mai veramente guardato le vite che mostro nei miei film? Avete mai visto sul serio il grido disperato che c’è nei miei lavori?”, e lo fa come se avesse un dubbio. Come dubitasse di uno stile diventato maniera leziosa (L’arco, Time, Dream e Breath), inadeguato a un’urgenza espressiva che sentiva viva e rischiava di essere spenta dalla fredda compostezza di un'immagine ormai in gran parte artificiosa. La rottura, per essere totale e davvero sincera, doveva essere quindi estetica, prima che emotiva, e mantenere un legame con l’idea di cinema alla quale Kim Ki-Duk comunque ancora credeva.

La rottura “non poteva essere altro” che Pietà. Un film che porta sul proprio corpo i segni del gesto violento dal quale nasce, le cicatrici che ogni cambiamento radicale inevitabilmente lascia. Un film imperfetto e “sbagliato”, ridondante, sovrabbondante e parossistico; contenitore di eccessi morbosi che esplodono liberando il caos di una sofferenza esasperata. Il dolore e la rabbia sono infatti il centro narrativo di Pietà. Ogni azione dei suoi protagonisti, ogni svolta narrativa è innescata da rabbia e dolore, che sembrano essere le uniche emozioni concesse in un mondo ordinato, soprattutto sentimentalmente, da un sistema ingiusto; un capitalismo del quale Kim Ki-duk mette in scena le dinamiche in maniera grezza e retorica eppure allo stesso modo tenera, della tenerezza dei bambini che si ribellano a qualcosa di evidentemente sbagliato e apparentemente eterno. Pietà è un film regolato da impulsi involontari e vitali (girato in poco più di 20 giorni) come il battere del cuore; le sue immagini sono sporche, talvolta brutte, la sua struttura è approssimativa e banale. E come ogni atto impulsivo genera fastidio e inadeguatezza anche quando è la giusta reazione a un patire sincero. Pietà è un film di redenzione. La redenzione del suo protagonista che, un po’ Cristo e un po’ eroe tragico, si sacrifica per la salvezza di tutti; e la redenzione del suo regista da una cifra stilistica che non lo rappresentava più umanamente. Se quella striscia di sangue - che taglia in due una città grigia e morente nella splendida scena finale - possa davvero cambiare qualcosa non ci è però dato saperlo.

Titolo originale: Pieta; Regia: Ki-duk Kim; Sceneggiatura: Ki-duk Kim; Fotografia: Young-jik Jo; Montaggio: Ki-duk Kim; Scenografia: Hyun-joo Lee; Costumi: Ji-yeon Ji; Musiche: In-young Park; Produzione: Ki-duk Kim Film Production; Distribuzione: Good Films; Durata: 104 min.; Origine: Corea del Sud, 2012

 


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