Quando il cinema si fa "scomodo" ... PDF 
Aldo Spiniello   

Premessa
Tracciare la storia di un cinema scomodo sarebbe cosa non da poco. Occorrerebbe farvi rientrare i film nati come attentati premeditati e i film che si son ritrovati in croce loro malgrado. E bisognerebbe distinguere a seconda dei tempi, dei luoghi. Le condizioni che hanno reso inviso Umberto D. al potere non son certo le stesse che hanno impedito a Ejzenštein di finire Il prato di Bežin. E del resto, le vicissitudini di Ultimo tango a Parigi raccontano ancora un'altra storia. No, questo piccolo scritto non vuole tracciare percorsi. Si concentra su alcuni aspetti del cinema americano mainstream, per provare a definire una linea interpretativa, o meglio una linea discriminante.

1.
Zero Dark Thirty, l'ultimo splendido film di Kathryn Bigelow, ricostruisce le tormentate vicende che hanno portato all'uccisione di Osama Bin Laden, non nascondendo alcunché dei metodi poco ortodossi utilizzati dall'intelligence e dall'esercito. Torture, abuso sistematico dei diritti umani, utilizzo spregiudicato dei poteri d'indagine e inchiesta. Grandi polemiche, ovviamente, negli USA, sull'opportunità di porre l'accento su determinati aspetti. Polemica sicuramente ingigantita dagli sforzi dell'amministrazione Obama di ricostruire un'immagine "pulita" della guerra americana contro il terrorismo. Sicuramente, da un punto di vista tematico, Zero Dark Thirty può essere considerato un film "scomodo", benché non si tratti di un film di denuncia. Eppure, nonostante questo, ha fatto incetta di nominations agli Oscar, ha ricevuto premi e riconoscimenti. Che significa tutto questo? In un certo senso, il "sistema cinema" è in grado di assorbire perfettamente gli assalti frontali di un cinema scomodo. Anzi, può persino donargli un'aura sacrale. Certo, la storia degli Oscar, nell'imprevedibile schizofrenia dei suoi risultati, non è esattamente indicativa di una coscienza politica chiara, netta, definita. Ma mostra a più riprese la capacità di collegarsi alle urgenze pressanti della "denuncia", dell'intervento diretto su grandi temi della società. A fronte di un atteggiamento conservatore, per non dire decisamente reazionario mostrato negli ultimi anni con il trionfo del cinema "passatista", da Il discorso del re a The Artist, è pur vero che nell'ultimo decennio si sono affermati film francamente scomodi, apertamente critici nei confronti del "sistema" politico, economico e culturale. Basti pensare alla vittoria nel 2003 di Bowling for Columbine di Michael Moore, vera e propria spina nel fianco dell'amministrazione Bush. O all'affermazione, nel 2009, dell'altro film della Bigelow, The Hurt Locker, affondo devastante nell'ossessione guerrafondaia di un paese che sembra incapace di rinunciare al richiamo del sangue. Addirittura a farne le spese, in quel caso, è stato un blockbuster epocale come Avatar. A dimostrazione di come anche gli apparati più istituzionali dell'industria cinematografica non siano insensibili ai temi caldi dell'attualità.

Certo, sarebbe interessante studiare a fondo i cambiamenti di approccio e valutazione di questi apparati in rapporto alle amministrazioni politiche (c'è un Oscar dei Presidenti?). Ma resta il fatto che per i cento, mille grandi film ignorati dalla Storia, i riconoscimenti ufficiali dell'industria cinematografica hanno manifestato, nel corso dei decenni, un atteggiamento sostanzialmente inclusivo. Confermando la libertà di fondo del cinema statunitense di mettere continuamente in discussione gli assetti costituiti. Senza dover necessariamente andare a scomodare l'underground, l'avanguardia, lo sperimentalismo, i circuiti alternativi e indipendenti (altra questione stabilire cosa sia davvero indipendente), tutti i possibili Hurlements en faveur de Sade della Storia. È sempre stato così: pur lavorando all'interno di un sistema industriale codificato, pur adeguandosi alle regole del mainstream, il cinema americano è sempre riuscito a raccontare l'altra faccia della Storia, come una sorta di controcanto rispetto alla rappresentazione ufficiale del potere. Magari lo ha fatto di nascosto, lavorando sui generi e sui suoi codici, filtrando il discorso sul presente attraverso uno sguardo rivolto al passato. Ma resta il fatto che non ha mai smesso di cercare uno spiraglio di verità sugli aspetti più controversi della contemporaneità. In questo senso, il cinema è sempre stato, come giustamente sottolineato da Badiou, una critica dell'immagine mossa proprio attraverso le immagini, cioè una costante rimessa in discussione di quell'astratta coincidenza tra la rappresentazione e la realtà perseguita dall'ordine spettacolare.

2.
Quando, nel finale di The Conspirator, l'avvocato Aiken si allontana per diventare il caporedattore cronaca del Washington Post, Redford in un certo senso chiude il cerchio. Torna a Tutti gli uomini del presidente e ribadisce la sua fede, quell'idea di un cinema come supremo tribunale della nazione. Un'idea liberal, verrebbe da dire, erede del cinema di Pollack, Pakula, Lumet. Ma più propriamente un'idea resistente, connaturata alla visione di chi ha costruito la storia di Hollywood nel corso dei decenni: registi, sceneggiatori, attori/icone. Un'idea definitivamente traversale, oggi. E non meraviglia affatto che registi diversissimi tra loro facciano un cinema sostanzialmente identico: Redford ed Eastwood, ad esempio, pur da posizioni politiche opposte, mettono entrambi in gioco il proprio statuto iconico per puntare lo sguardo sui segreti della rappresentazione, su quel cono d'ombra che accompagna ogni immagine ripresa e proiettata sullo schermo. Sì: il cinema fa politica. È scritto nella sua stessa essenza. E le nomination agli Oscar di quest'anno sanciscono definitivamente la riscoperta di questa vocazione. Argo di Ben Affleck, Zero Dark Thirty della Bigelow, Lincoln di Steven Spielberg, Django Unchained di Tarantino disegnano un comune percorso di riflessione e di rimessa in discussione delle categorie della politica, perché ragionano proprio sui punti di coincidenza e frizione tra l'immagine e il reale, tra la rappresentazione e la verità nascosta delle cose. Se ad essi aggiungiamo, fuori dalla corsa agli Oscar, due film assolutamente decisivi cone Promised Land di Gus Van Sant e The Company You Keep di Robert Redford, viene davvero a comporsi il quadro di un discorso organico sulle menzogne della contemporaneità e gli orizzonti e le sfide della democrazia.

Partendo da Lincoln, film sul potere demiurgico della parola proferita dal leader e non ancora condivisa, fino ad arrivare a Zero Dark Thirty, film d'azione che riflette proprio la fine del consenso e il vuoto di una parola non più condivisa, si compie una vera e propria parabola, l'arco di trasformazione della democrazia occidentale, chiamata a constatare le ragioni della propria crisi e individuare le strategie di rifondazione del dialogo. Chi racconta la Storia e quale obiettivo persegue? Quali sono i margini di libertà, e quindi di ribellione rispetto al punto di vista dominante, alle maglie stringenti di una Storia già scritta? Dove si annida la verità, se la pratica politica si fonda proprio sulla manipolazione della parola, sulla rappresentazione, la finzione autorizzata dalle esigenze del fine? Ed è possibile immaginare una pratica estetica eversiva, che, in un qualche modo, rimetta in discussione la schiavitù di un immaginario ormai acquisito, appiattito a livello globale? Sono queste e infinite altre le domande che il cinema oggi rimette in gioco, riappropriandosi finalmente delle questioni fondamentali. Questioni che negli ultimi anni di riflusso erano state abbandonate alle riflessioni solitarie (Godard, de Oliveira), a lucide eppur sporadiche letture della crisi (da Wakamatsu a Johnnie To), culminate in magnifici e sovversivi gridi di battaglia (gli infiniti "nemici pubblici", da Michael Mann a Jean-François Richet, dal Vallanzasca di Placido al Carlos di Assayas).

3.
Se davvero il mainstream è in grado di "assorbire" e persino promuovere il cinema politico, la denuncia, la riflessione, dov'è il cinema davvero scomodo, quello ignorato dagli apparati dominanti, boicottato dai produttori, sabotato dai distributori, amato e odiato dal pubblico? Dov'è il cinema maledetto? Probabilmente non c'è che una risposta. Il cinema vuole denaro. Gli è essenziale come l'aria per respirare. Congiurare ai danni di questa dittatura del denaro, vuol dire suicidarsi. Il cinema muore di troppo (poco) denaro. Allora il cinema davvero scomodo è quello che contravviene alle priorità dell'industria. È il cinema antieconomico, quello che si perde dietro i sogni della propria grandeur produttiva, che non rispetta le previsioni di bilancio, che sfora, che invade il mondo per farne il proprio set, scoprendone i limiti, ridisegnandone le coordinate. Michael Cimino, sacrificato dinanzi a I cancelli del cielo, dopo il trionfo de Il cacciatore, è il massimo emblema vivente di questo cinema maledetto, entrato in rotta di collisione con i piani e le esigenze degli studios. Da quasi vent'anni, ormai, il suo nome è cancellato dalla storia di quest'arte precaria, spuria. È senz'altro il segno di un'impasse artistica, dovuta all'incapacità di adeguarsi alla nuova epoca delle produzioni veloci e leggere. Ma è soprattutto la conseguenza di uno stigma indelebile.

Nel destino di Cimino, allora, si compie definitivamente un'ideale controstoria del cinema, che racconta di fallimenti, di scontri furiosi tra la visione e il mercato, tra la libertà dell'ispirazione personale e i rigidi vincoli dell'industria. È la storia di Stroheim, dei grandi ribelli di Hollywood, Nick Ray, Robert Aldrich (il più incazzato di tutti), Sam Peckinpah. È la storia degli irriducibili outsider: John Cassavetes, col suo cinema "smarginato", opposto e uguale a quello di Cimino. È la storia dei grandi costretti a scendere a compromessi o a ridimensionare le proprie ambizioni smisurate, il Fritz Kang americano e Orson Welles. È la storia di Francis Ford Coppola, l'altro grande sopravvissuto della New Hollywood, il genio che fa ancora un cinema immenso, personale, liberissimo, contro tutto e tutti. E ancora Walter Hill o Abel Ferrara, costretto a racimolar soldi in giro pur di dar forma alle proprie magnifiche ossessioni. È la storia di un cinema che "non funziona", che entra in frizione con le ragioni economiche della struttura e del racconto, che mette in discussione l'essenza meccanica dello spettacolo, per riscoprire invece la vita, la gioia profonda delle cose, un altro tempo e un altro mondo. È questo il cinema davvero scomodo. Quello che ci fa saltare dalla poltrona, ci obbliga a tener gli occhi aperti, a rinunciare alla tranquilla traiettoria delle nostre prospettive e previsioni. We had a beautiful time, but the party is over!

 
 


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