Kurt and Courtney - Nick Broomfield PDF 
di Matteo Vabanesi   

Può un uomo iniettarsi una dose di eroina tre volte superiore alla soglia letale, imbracciare un fucile, spararsi un colpo mortale e rimuovere tutte le tracce dall'arma con cui si è tolto la vita? È possibile che anche sulla penna usata per scrivere le ultime parole d'addio non vengano rinvenute le sue impronte digitali? Sembra inverosimile, ma a dieci anni di distanza - dall'8 aprile 1994 a oggi - queste domande senza risposta gravano attorno alla morte di Kurt Cobain, leader dei Nirvana.

Pochi mesi dopo il suicidio, le rivelazioni di Tom Grant, un investigatore privato ex detective della LAPD, furono un vero e proprio terremoto. Ingaggiato da Courtney Love qualche tempo prima della scomparsa del marito, Grant si disse certo che Cobain era stato assassinato. E trovò anche il colpevole: El Duce, cantante leader del gruppo metal The Mentors. Anzi, ex-leader ed ex-cantante perché, dopo aver dichiarato che la Love gli offrì $ 50.000 per uccidere Kurt, morì nel 1997 investito da un treno.

L'ipotesi di Grant è lo spunto del documentario Kurt and Courtney di Nick Broomfield. "C'erano molti rumors intorno alla morte del leader dei Nirvana – commenta l'autore londinese – […] Anche se molte di queste teorie possono essere disapprovate, portano comunque una grande quantità di materiale su cui riflettere per comprendere meglio ciò che è successo". Il film, uscito nel 1998 prodotto dalla BBC, racconta l'inchiesta condotta da Broomsfield sulla vita di Cobain. La sua biografia, il background familiare, le relazioni, le amicizie: la ricostruzione del vissuto di Kurt si compone di interviste e colloqui alle persone a lui più legate. Dalla zia Mary, madre putativa e prima "produttrice" del futuro leader dei Nirvana, a Tracy Miranda, fidanzata del giovane Cobain poeta e pittore. Dall'ambiente di Aberdeen, desolato sobborgo industriale nello stato di Washington dove il cantante nacque, alla scena grunge di Seattle: prima il trauma della separazione dei genitori, poi la tossicodipendenza, il successo, il matrimonio con Courtney Love, l'amore per la primogenita Frances Bean, la profonda crisi coniugale, fino al terribile epilogo. "Ho seguito il racconto delle persone che incontravo – spiega Broomfield –. Nel pomeriggio intervisti qualcuno, che ti dice qualcosa e così ti porta verso qualcun altro. Bisogna solo seguire una linea". Una traiettoria che presto, però, si è rivelata fatale, perché ha condotto il giornalista britannico a infilarsi nel pericoloso buco nero rappresentato dalla vedova Cobain. "Mi aspettavo realmente che potesse prendere parte al film, usarlo in modo positivo per spiegare molte cose sul conto della morte di Kurt – prosegue l'autore. Fui davvero sorpreso quando Courtney cercò di fermare il documentario impedendomi, tramite la BBC e MTV, di usare le musiche. Fui sorpreso e insieme divertito. Tutto dava maggiore credibilità alle storie che le persone raccontavano su di lei".

Broomfield è subito molto chiaro. Fin dalle prime immagini, il viaggio in macchina verso Aberdeen, la voce narrante dell'autore sottolinea le restrizioni a cui è sottoposta la produzione. Limiti legali e finanziari. L'uso di una colonna sonora originale è interdetto dalla Love, come l'accesso a tutto il materiale inerente le esibizioni dei Nirvana. Gli sponsor latitano: hanno paura che l'investimento si risolva in un boomerang. La stessa BBC, vessata dalla minaccia di un'azione legale, si tira indietro. L'autore, però, non demorde: "continuavo a pensare: "Questo è il nucleo del film. Perché quest'area è off-limits? Perché deve esserlo?" […] Sempre più mi dicevo che questo era il vero sottotesto del film". Tra mille difficoltà Broomfield procede con rigore nella sua inchiesta. Se Courtney continua a negarsi, allora sono suo padre, l'ex fidanzato e alcuni amici a parlare di lei. "Sono Satana, e non mi importa se tu sei Gesù e i tuoi avvocati sono i dodici apostoli! Io ti rompo il …". Questa, insieme a un caloroso messaggio di morte, la dedica rivolta alla Love dal suo primo boyfriend Russ Rossback. E poi il padre Hank Harrison, freddo, cinico, terribile, sicuro che la figlia sia la "pistola fumante" dietro la morte di Kurt; e, ancora, tutti i conoscenti la descrivono possessiva, intimidatrice, opportunista, materiale. "Accorgersi che molte delle cose dette su Courtney erano vere non è stata una piacevole scoperta. È stato qualcosa a cui ho opposto una strenua resistenza. Ma era comunque una cosa concreta, una parte del film. La cosa che mi sono sempre chiesto alla fine dei miei film è: "rappresentano la mia esperienza di quello che è realmente accaduto mentre li stavo realizzando?" […] E questa è grosso modo la forma in cui concepisco i miei film, e la maniera in cui spero vengano percepiti".

La dinamica narrativa di Kurt and Courtney si inserisce così in quella tendenza chiamata da Stella Bruzzi documentario performativo. Uno stile poco incline all'osservazione ma più diretto, meno "fly on the wall" quanto piuttosto "fly on the soup", per parafrasare la formula coniata nella fase aurorale del cinema diretto americano. "Se stai realizzando un film, è più onesto far sentire la tua presenza piuttosto di ritirarsi furtivamente all'altro capo della stanza, perché nessuno trae beneficio da questo atteggiamento – conferma Broomfield". Un discorso che, per certi versi, trova le sue radici nell'approccio utilizzato da Michael Moore per la composizione dei suoi pamphlet contro il potere corporativo. Certo già Rouch, Leacock, Brault e, in generale, tutti i pionieri del direct cinema – ma ancora ben prima di loro Robert Flaherty – erano a conoscenza dell'alterazione provocata dalla presenza del filmmaker. Quello che colpisce è l'insistente presenza dell'autore, l'uso forte e ripetuto della prima persona, l'individualizzazione della storia narrata. Costantemente in campo, il regista-giornalista diventa una figura invasiva che si offre al processo di identificazione come, in un altro ambito, un conduttore si propone al pubblico del suo show. Tendenza affascinante, fertile, ricca di spunti di analisi fosse non solo per situarsi al confine tra cinema e televisione, in una logica di ibridazione reciproca spinta, forse, dalle trasformazioni indotte dal formato digitale. Un'inclinazione seduttiva ma, insieme, pericolosa, come il canto delle figlie di Nereo.

Considerare il documentario un modo di rappresentazione opposto alla realtà non-mediata può condurre a sottovalutare proprio la valenza del reale. Intendiamoci meglio: se l'unica autenticità certificabile è la costruzione del racconto, si corre il rischio che alcuni "trucchi del mestiere" del cinema romanzesco inquinino l'etica del reale su cui si fonda il cinema documentario. Un'incognita quindi, non una certezza. Nessuno, parlando del documentario su un suicidio, vuole compiere l'omicidio di un certo cinema non-fiction. Ma è proprio il film di Broomfield a prestare il fianco a considerazioni di questo genere. Perché un approccio che si vuole e si proclama – ostentandosi – "diretto" ha l'accortezza di rimuovere le targhe dalle vetture parcheggiate nel vialetto di casa Harrison? Perché la progressione filmica ci viene presentata come cronologica mentre sappiamo essere il frutto di due anni di lavorazione? E ancora, su un altro fronte, perché la penuria di sponsor lamentata nel testo non si intona con la ricorrente presenza di un logo ben riconoscibile nelle immagini? Fare del documentario un esercizio di retorica non può voler dire sottrarre i filmmakers alle loro responsabilità sociali? Ritornando all'antica questione della verità, se è vero che il senso del film si compone nella relazione tra autore, soggetto e pubblico, altrettanto indubitabile è il fatto che lo spettatore non è autonomo, tanto meno il soggetto, ma solo il filmmaker può esserlo.

Già, la verità. Chi ha ucciso Kurt Cobain? Benché l'interrogativo proposto dal detective Grant gravi inquietante sullo sfondo, con certezza non lo sappiamo. Forse solo nelle parole della zia di Kurt dimora l'unico frammento di autenticità: "Mary – dichiarò Broomfield – mi raccontò che una volta, quando aveva quindici o sedici anni, Kurt fece alcune registrazioni nella sua stanza. Fra i nastri, la zia trovò la canzone "Seaside Suicide". Oggi le è rimasta come la sensazione che Kurt avesse flirtato con il suicidio molto tempo addietro".

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.