The Way Back PDF 
Marco Doddis   

David Hughes, il critico di Empire ha scritto a proposito di The Way Back che "è un buon film da un regista che ci ha abituato a grandi film". Ecco, la chiosa di Hughes, a cui non si può che invidiare le doti didascaliche, basta da sola a spiegare tutta l'essenza dell'ultima fatica di Peter Weir. Il regista di Sydney, i cui ultimi due lavori erano stati The Truman Show e Master & Commander (mica robetta da poco, ecco perchè lo spettatore che si appresti alla visione di The Way Back lo fa con un bel po' di acquolina in bocca), ritorna sulle scene con un'opera sicuramente compatta dal punto di vista drammaturgico e indubbiamente coerente nelle sue trame etiche ed estetiche, ma che non regge il confronto con il resto della sua filmografia.

Certo, la pellicola non presenta delle pecche clamorose. Anzi, la sensazione è che sarebbe bastato farla durare appena mezz'ora in meno per allontanarla dalla dimensione dell'ordinario. D'altra parte, la storia è affascinante ed è servita da una regia a cinque stelle; gli attori formano una squadra affiatata, che brilla anche grazie al contributo di un paio di fuoriclasse; la fotografia di Russel Boyd è magnifica (la materia prima non mancava di certo) e la musica di Burkhard von Dallwitz commenta puntualmente i momenti di maggior tensione. Ciò che invece non convince del tutto è, appunto, la sceneggiatura. Il lavoro di Weir e di Keith Clarke sembra essere ostaggio del romanzo Tra noi e la libertà (in Italia edito da Corbaccio) di Slawomir Rawicz, il testo ispiratore del film. Nel libro, l'autore racconta la propria fuga da un campo di concentramento siberiano insieme ad altri prigionieri e di un incredibile viaggio a piedi per raggiungere l'India. L'opera, di cui è stata messa seriamente in dubbio la veridicità, non funge da mero punto di partenza per il film, ma ne pervade il tessuto, rischiando di comprometterne l'autonomia narrativa ed espressiva. Weir, cioè, finisce per produrre una creatura ambigua, che parte come dramma storico-carcerario e finisce per tramutarsi in un road movie formativo-contemplativo in cui però non si avvertono gli appropriati cambiamenti di tono. Tutto, cioè, viene appiattito sulla parola scritta di Rawicz, con il risultato di trovarsi di fronte a qualcosa di molto simile a un documentario. Dubitiamo che Weir intendesse girare un documentrario (anche se la presenza della National Geographic tra i finanziatori potrebbe far pensare il contrario); se avesse voluto farlo, avrebbe dovuto strutturarlo diversamente e, come detto, rivederne la durata. Così com'è, invece, il film parte bene e si perde un po' per strada, come i suoi protagonisti. Per la sua impostazione iniziale, così carica di tensione e di dinamismo, anche visivo, ci si aspetterebbe che, lungo la strada, fosse disseminato qualche momento di svolta più deciso, qualche turning point narrativo di maggiore impatto. E invece no. A cambiare radicalmente, sono solo i paesaggi: si passa dalla Siberia gelida e bianca, alle steppe della zona del Lago Bajkal, dall'arido Deserto di Gobi, all'imponenza delle montagne tibetane, fino al verde dell'India.

Il gruppo degli evasi è piuttosto eterogeneo: vi spiccano Janusz (Jim Sturgess), il protagonista, incarcerato nel Gulag a causa di una deposizione coatta della moglie; Valka (Colin Farrell), pericoloso criminale di strada; Khabarov (Mark Strong), attore russo punito per presunte simpatie reazionarie; Mr. Smith (Ed Harris), ingegnere americano venuto in Russia a seguito della Grande Depressione. Sono costretti a una vita d'inferno, in cui conoscono fame, freddo, fatica e abiezione. La loro evasione è un vero e proprio salto nel buio, visto che, fuori dal recinto del campo, li aspetta un carceriere più duro di qualsiasi soldato sovietico. Come dichiara un comandante all'inizio del film, “non sono le nostre armi, i nostri cani o le nostre recinzioni che formano la vostra prigione. La Siberia è la vostra prigione!”. Il confronto dell'uomo con un ambiente che gli è ostile (anche in modo ingannevole, come in The Truman Show) è un classico del cinema di Weir. Qui, in più, si ritrova un elemento che ha caratterizzato pellicole anche molto lontane nel tempo nella filmografia del regista australiano, come Picnic ad Hanging Rock e, fra le più recenti, Master & Commander: la fuga, la perdita di se stessi all'interno della natura, che, in definitiva, traducono al massimo grado il desiderio di libertà dell'uomo. Nella storia, la comparsa della giovane Irena (Saorise Ronan), elemento potenzialmente destabilizzante all'interno del gruppo, riesce invece a unire delle personalità anche molto diverse tra di loro. Così, vedendo la morte in faccia in ogni momento (qualcuno dei personaggi secondari si dovrà arrendere per strada), il gruppo riesce a portare a termine la sua impresa.

Senza assistere a colpi di scena clamorosi, lo spettatore rimane dunque ingabbiato (troppo) in una dimensione contemplativa. Sarà magari un po' annoiato nel finale, ma sicuramente ringrazierà Weir per aver trasformato in immagini un libro poco noto e, in alcuni casi, per avergli consentito di visualizzare le proprie reminiscenze letterarie su una delle pagine più buie della Storia novecentesca: la prima mezz'ora di film, infatti, strizza l'occhio a Solzenicyn (Arcipelago Gulag) e a Salamov (Racconti di Kolyma). In relazione, invece, al viaggio attraverso l'Asia, qualcuno si sarà ricordato di Imperium di Ryszard Kapuscinski, sorta di reportage sui luoghi più significativi dell'ex Impero Sovietico: un'opera da leggere assolutamente, un grande libro di un grande giornalista-esploratore.

Titolo originale: The Way Back; Regia: Peter Weir; Sceneggiatura: Keith R. Clarke, Peter Weir; Fotografia: Russell Boyd; Montaggio: Lee Smith; Scenografia: John Stoddart; Costumi: Wendy Stites; Musiche: Burkhard von Dallwitz; Produzione: Exclusive Films, National Geographic Films, Imagenation Abu Dhabi FZ, Monolith Films, On the Road, Point Blank Productions, Polish Film Institute; Distribuzione: 01 Distribution/Rai Cinema; Durata: 133 min.; Origine: USA/Emirati Arabi/Polonia, 2010

 


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