È stato il figlio PDF 
Martina Bonichi   

Suoni mascherati da altro, gigantografie di dettagli che senza lasciarsi intendere precipitano in una storia disgraziata le proprie intenzioni. Smisurati numeri lampeggianti, alcune persone che aspettano, e la prima immagine, fiera, perfettamente calibrata e composta, incornicia un uomo seduto, straniato, che comincia a narrare il suo film, È stato il figlio.

Si inizia dalla fine, da un pretesto. Così Ciprì, da solo alla regia e in concorso al Festival di Venezia, supera l’empasse che avrebbe appesantito ancor di più una storia tanto grave e, sul registro viscontiano de La terra trema, sceglie una voce trainante come appiglio per inserire dei flashback, precipitando lo spettatore negli anni Settanta, in una realtà sottoproletaria di Palermo dove Nicola Ciraulo - maschera buffa e grottesca di Toni Servillo - si arrabatta tra i ferri arrugginiti di navi disarmate per sbarcare il lunario. Due figli, due realtà a confronto, la piccola Serenella, gioia del padre, compare in campo durante le scorrazzate nel quartiere, imbracciando una pistola mentre gioca a fare la grande, e l’altro, ventenne, dimesso e silenzioso che ancora non sa cosa fare da grande, in attesa di trovare un ruolo per se stesso. A completare un tipico affresco tardo ottocentesco di sottoproletariato siciliano, sono la moglie e i genitori di Nicola, che vivono con loro. Quando la bambina viene colpita per sbaglio da un colpo di pistola, il miraggio di un’improvvisa fortuna sembra colpire la famiglia per la promessa di un risarcimento che verrà sperperato prima ancora di arrivare. Tra usurai e debiti, Nicola si trascina avanti fino a investire il denaro rimasto in una fiammante Mercedes, l’unico bene che avrebbe convinto il mondo di una nuova posizione per la famiglia. La più fedele rappresentazione della realtà (cinematografica) sembra paradossalmente ottenersi attraverso la sua esibizione surreale, la cui messa in scena si regge non più sui personaggi ma sulla scelta di maschere grottesche che sfoggiano in modo caricaturale la propria miseria. Ed è da quest’ultima, la misera condizione umana, che Ciprì muove i passi ricordando la lezione neorealista, e, mettendone in luce il funzionamento, sceglie di virare sul registro tragico e paradossale, mostrando quanto ormai rimanga ben poco di ciò che furono quegli anni. Ed è tra le musiche sfarzosamente napoletane a inneggiare il Sud e i chiassosi slang siciliani che il film mette in scena la meschinità di chi vi abita. Non c’è più lotta, volontà, fierezza, né volti tragici a raccontare la storia, ora rimangono solo le maschere farsesche, ridicole. Così, tra i volti gretti e buffoneschi dei personaggi, si alternano alle perfette simmetrie dei campo fissi delle vorticanti danze della macchina da presa, che senza battere ciglio si poggia, si solleva, guarda dritto negli occhi questi Malavoglia del XXI secolo alle prese con i loro drammi di povera gente. Un solo momento di umana pietas sembra comparire durante la prima tragedia: lampi di luce a intermittenza si poggiano sui visi sconvolti di chi accorre alla sciagura, la morte della bambina. Dall’alto, la camera, prima troneggia sul corpo, poi si allontana schiacciando i vinti a terra, a piangere per la propria disgrazia.

Non esiste fortuna, non è ammesso alcun cambiamento per chi viene raccontato in questo piccolo film erede del neorealismo. È il “ciclo dei vinti” verghiano che Ciprì mette in scena, e, senza tratteggiarne la fierezza e il decoroso affanno, lascia che i personaggi si raccontino da soli, mettendone in mostra solo la gretta e bieca volontà di farla franca, soffocando il dolore per la perdita di una figlia con le chiassose e grasse risate a bordo di una macchina di lusso. Così, quello che si racconta è la parabola triste e sardonica che si muore esattamente come si è nati, nella disgrazia, negli stenti. Le due realtà a confronto, quella di ieri e di oggi, raccontata dal primo personaggio in campo, sono tanto assurdamente simili da poterle invertire. L’ultimo personaggio uscito dal quadro della storia di Nicola Ciraulo è il primo che ha aperto il film, la nostra voce narrante, il giovane figlio ammutolito dalla realtà che senza scegliere alcun ruolo nella vita, di fronte al corpo esanime a terra del padre, deve scegliere quello dell’omicida. “Conoscevo uno che per un graffio alla macchina ammazzò suo padre”,  la frase d’apertura che incornicia la storia - modellandola secondo il volere della famiglia alla morte del  padre -, è l’ultimo atto che la chiude, recidendo così ogni speranza di riscatto.

Titolo originale: È stato il figlio; Regia: Daniele Ciprì; Sceneggiatura: Daniele Ciprì, Massimo Gaudioso, Miriam Rizzo; Fotografia: Daniele Ciprì; Montaggio: Francesca Calvelli; Scenografia: Marco Dentici; Costumi: Grazia Colombini; Musiche: Carlo Crivelli; Produzione: Passione, Babe Film, Palomar, Rai Cinema, FaroFilm, Aleteia Communication, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Apulia Film Commission; Distribuzione: Fandango; Durata: 90 min.; Origine: Italia/Francia, 2011

 


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