Mystic Elephant versus Zatoichi Ville : due parole sulla violenza d’autore PDF 
di Fulvio Montano   

"Il cammino dell'uomo timorato è minacciato da ogni parte dalla tirannia degli uomini malvagi.
Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà
conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre,
perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti."

Ezechiele 25,17

In questo cupo inizio di millennio sovraccaricato dalle possibilità anziché dalle certezze, si è colti dalla fugace e spiazzante sensazione che il grande fiume del cinema abbia travalicato gli argini, mentre quelle che un tempo erano identificabili come istanze di volta in volta nazionali, continentali o culturali si siano come dissolte negli infiniti rivoli dell'autorialità più intimamente cruda e personale, per forza di cose difficilmente catalogabile.
Anch'essa preda della forsennata globalizzazione di economie, valori e gusti che caratterizza quest'epoca di capitalismo avanzato, la settima arte si rivela in tutta la sua incontenibile e caotica complessità, incapace di raccordarsi all'idea originaria di arte totale e di proto-ipertesto che ne caratterizzava gli esordi. Tentare, quindi, di individuare categorie o evidenziare filoni nello sforzo di mappare l'universo cinematografico contemporaneo, con tanto di legenda colorata da incollare in basso a destra, si rivela impresa titanica e per certi versi inutile.

Aboliti nell'arte i confini di stato, dissolte le correnti, le scuole e quell'ultimo disperato tentativo di definire la post-modernità, tutto appare improvvisamente disponibile e così a portata di mano da sembrare snaturato e vuoto, sospeso in un limbo di segni ed echi frammisti a mode sempre più momentanee, sentieri appena decifrabili nella polvere depositata dal tempo. Sulla carreggiata a scorrimento veloce del mainstream è dunque un proliferare di svincoli e strade secondarie spesso senza uscita, di idee e proposte, il più delle volte mal indicate, in febbrile e costante evoluzione, tanto che l'indovinare delle tendenze non può che limitarsi a suggerire dei percorsi, stimolati dalla curiosità più che dalla certezza che il pedinamento conduca alla scoperta di un modello esemplificativo della situazione attuale.

 Percorso tra i tanti possibili quello indicato dalle rappresentazioni cosiddette d'autore della violenza, proposte da filmmaker navigati e dal sostanzioso curriculum produttivo. Opere complesse e sottilmente ambigue, approdi forzati di un esercizio di poetica che sembra indicare due differenti prospettive d'approccio al tema: una realista, per lo più legata alla cronaca delle quotidiane esplosioni di violenza nell'Occidente industrializzato, e un'altra teatrale, sospesa in un passato non meglio definito che si tinge dei colori del mito.

 

 

Alla prima categoria appartengono senza dubbio l'afasico e crepuscolare Mystic river di Clint Eastwood e l'agghiacciante Elephant di Gus Van Sant, mentre alla seconda il rabbioso Dogville di Las Von Trier e lo jidaigeki di Takeshi Kitano, Zatoichi. Se da una parte abbiamo la trasposizione di drammi che si svolgono Dal tramonto all'alba e in cui il tempo della storia non dista eccessivamente da quello del racconto, dall'altra abbiamo una narrazione più dilatata e simbolica, che rifiuta qualsiasi appello al contingente rifugiandosi in un surreale paradigmatico e carico di rimandi.

 

 

All'onestà di un Eastwood si oppongono così il nonsense giocoso di Kitano (caratterizzato più dalla costante e grottesca presa in giro di usi e costumi del suo popolo che da un'articolata riflessione sulla violenza in quanto tale) quanto l'estremo e al solito un po' paraculo Von Trier, che con flemma insiste nelle sue pratiche di scoperta dell'acqua calda da ostentare di fronte al mondo imberbe.

 

 

Di diverso avviso, ma sostanzialmente in accordo con le posizioni del collega americano, è invece Van Sant, che descrive con poesia e rigore scientifico insieme una violenza tutto sommato meno frequente ma decisamente più sconcertante, tanto che gli adolescenti costruiti sulla matrice di Columbine si fanno specchio della deriva di un'intera società, preda di modelli insulsi e illusi del brivido di un potere che il più delle volte si limitano ad invidiare agli altri. Una società per forza di cose già condannata, sospesa nel superfluo della sua Venticinquesima ora, l'ultima prima della fine.

Minimo comune denominatore tra le opere citate è così la conclusione che la violenza (com'era e come sempre sarà nei secoli dei secoli) rappresenta qualcosa di immanente alla storia dell'uomo. Una violenza tutt'altro che risolutiva, inspiegabile ed a lui sostanzialmente indifferente, tanto che risulta difficile avvertire un cambiamento tra il prima ed il dopo o comprendere appieno le dinamiche che impongono un'alterazione dell'esistente.
Lo stesso finale di Dogville non può che limitarsi alla catarsi della sola protagonista, esito di un confronto tra due stili di vita sostanzialmente simili, fondati entrambi sull'esercizio di potere del forte sul debole. E mentre il fuoco divora case e pregiudizi, Grace inscena un rito di sterminio che sancirà il suo ingresso a pieno titolo nella comunità di gangsters da cui lei stessa proviene, riducendo la sua permanenza a Dogville ad una semplice parentesi della sua esistenza prima dell'età adulta.

Tanto il massaggiatore cieco Kitano quanto i due ragazzi di Elephant non si preoccupano di giustificare la loro pratica di violenza, ma sembrano in qualche modo fare quel che devono, come automi stregati dalle loro stesse fantasie. Indifferenti e vagamente insoddisfatti svolgono il loro dovere di stereotipi privi di rimorso, alla stregua dei personaggi di Mystic River, in cui il poliziotto si limita (per quel che può) a combattere il crimine, il delinquente a gestire i suoi loschi affari e lo psicopatico a svolgere il suo ruolo di peso scomodo in seno alla collettività. Ad accostarli l'uno all'altro, questi film rappresentano dei drammi irrisolti e forse inutili. Cos'è cambiato in paese dopo il passaggio di Zatoichi? A che è servito radere al suolo Dogville ed azzerarne le dinamiche? Che senso ha lottare contro una delinquenza inesauribile? E, infine, perché sopprimere la monotonia di un'adolescenza annoiata e vuota?

Un interessante parallelo è a mio avviso riscontrabile nel percorso del telefilm poliziesco americano, perlomeno quello approdato sui nostri schermi prima che ci si perdesse nella galassia di fiction attuale. Il primo personaggio di cui ho memoria è quel tappetto italoamericano di Baretta, un solitario per dovere che affittava una stanza nei bassifondi di New York in compagnia di un simpatico pappagallo. Senza donna e un po' sfigato, Tony era un personaggio crepuscolare e malinconico, un duro dal cuore d'oro che sguazzava quotidianamente nel sordido ambiente del crimine metropolitano. Onesto e a suo malgrado incorruttibile, rappresentava il prototipo moderno dell'eroe tragico, per nulla sfiorato dall'inutilità della sua lotta contro i mulini a vento.

All'estremo opposto stavano il pensionante Mike Stone e lo Steven/Douglas de Le strade di San Francisco, veri epigoni di rettitudine e propaganda poliziesca, a loro volta diversissimi dai solari e un po' scanzonati Starsky & Hutch. Sorta di poliziotti di quartiere, questi personaggi si guardavano bene dallo sfiorare le alte sfere, nella convinzione che il male albergasse nella delinquenza spicciola, mentre il Sistema ne rimaneva sostanzialmente immune.

 

Negli anni Ottanta qualcosa sembra però cambiare, tanto che i poliziotti della TV si spogliano del loro romanticismo per vestire i panni sfarzosi degli infiltrati. Miami Vice, con i suoi inadeguati sbirri di quartiere tirati a festa e animati da una sorta di ridicolo egoismo, ammette la realtà di un crimine ormai diffuso a tutti i livelli, in una società affetta da cancerogenesi congenita e senza speranze di guarigione. Ma gli anni Novanta riescono a fare di meglio, mescolando violenza e fantapolitica in quel cocktail sovversivo e cupo che erano le prime puntate di X-files, nel quale la violenza non è più rappresentabile perché capace di minare le stesse fondamenta dello stato democratico.

Tornando al cinema da cui eravamo partiti, è avvertibile insomma uno scarto tra il Callaghan/Eastwood di Don Siegel, il Charles Bronson del Giustiziere della notte o i Funny Games di Michael Haneke e i citati Elephant, Mystic River, Zatoichi e Dogville stesso, in cui è stata soppressa una chiara distinzione tra buoni e cattivi.

Le attuali riflessioni sulla violenza, abbandonando gli stereotipi di protagonista e antagonista, di eroe ed anti-eroe cari a tanti film di genere, sfruttano personalità più complesse, colpevoli e vittime insieme, come se il cinema fosse finalmente all'altezza della complessità dell'animo umano.
Ibridi contemporanei a metà strada tra romanzo e realtà, influenzate dal vuoto (di comunicazione e di valori) dell'uomo post-moderno, queste opere distorcono le dinamiche tradizionali della narrazione e della messa in scena, lanciando un monito sulla medioevalizzazione di un'intera società. Mentre i Signori del mondo pasteggiano soddisfatti e al sicuro nei loro castelli, fuori dalle mura l'uomo comune è come colpito da afasia fulminante. Roso dal dubbio si guarda e non si piace, incapace di comprendere cosa vi sia di stonato. Potenzialmente onnipotente si trasforma in carnefice di se stesso e insegue a grandi falcate la sua distruzione.

 


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