Quel treno per Yuma: il western dalle stalle alle stelle PDF 
Piervittorio Vitori   

ImagePuò apparire ingeneroso - e molto spesso risulterebbe almeno riduttivo - condurre un’analisi testuale di un remake sull’unica base di un confronto con l’antecedente. D’altro canto c’è da dire come, nel caso di un genere tanto codificato dal punto di vista semantico e sintattico qual è il western (e quindi storicamente tanto autoreferenziale), parlare del riadattamento fatto da Mangold di Quel treno per Yuma partendo da un paragone con la primigenia pellicola di Daves significhi utilizzare quest’ultimo come un prisma utile a chiarire il rapporto tra il film del 2007 ed i canoni del genere. Quanto a questi bisogna però intendersi. Nel 1957 il western si trova già in una fase di riflessione, che ha provveduto ad intaccare il mito del cowboy e del fuorilegge e che si vede già provvisto di un passato cui guardare con nostalgia. È emblematico in questo senso il personaggio di Wade, outlaw che è ormai diretto verso il proprio tramonto e ritorna con un senso di rimpianto alle città, ai saloon e alle donne frequentate anni addietro. Quello di Daves è quindi un tardo-West, dove la ferrovia è un dato acquisito e l’eroe è un ex-soldato riciclatosi come contadino, quindi un uomo passato, secondo la scansione storica edificata dal genere, dalla wilderness ad un successivo stadio di civilizzazione. Ma è anche un luogo abbastanza sperduto geograficamente: il regista ritorna infatti a location che gli sono care (quelle della località di Sedona, in Arizona) per riprese aeree e campi larghi che perdono i personaggi in lande brulle ed indistinte; né piccole cittadine semianonime come Bisbee e Contention forniscono appigli significativi quando si voglia collocare con precisione l’azione. Il mondo diegetico appare perciò come una sorta di limbo, privo dei più elementari riferimenti spaziali (Emmy non sa dire quanto disti da Bisbee il confine con il Messico) e specchio di una desolazione che è anche umana. In questo panorama in cui l’epica, svuotata dell’azione (l’assalto iniziale alla diligenza è concepito senza l’utilizzo della violenza), vira in malinconia, si fanno largo allora le psicologie dei personaggi.

ImageFermo restando il tema-cardine di fondo, quello di due uomini che partendo da istanze opposte si scoprono più vicini di quanto avessero supposto inizialmente, Mangold - che già aveva tratto ispirazione dal film di Daves per Copland - gioca le sue carte in maniera nettamente diversa. Il suo West appare leggermente retrodatato, con la ferrovia ancora in costruzione ed una Contention ancora da “lavori in corso”: il tono generale, insomma, appare mutuato da quelle dime novels di cui vediamo un esemplare nella prima scena del film sul comodino vicino al letto di William, il figlio maggiore di Dan Evans. Astraendo, Daves stempera il mito con la realtà, esaltando l’“eroismo” incruento di un uomo normale e strutturando il tema succitato principalmente grazie allo spostamento ideale del bandito verso l’agricoltore, di cui viene sottolineata l’integrità morale. Mangold, invece, ritornando quasi ad un’Arcadia del genere, mette in scena un avvicinamento reciproco e quasi speculare da parte dei due protagonisti: rimane l’ammirazione per Evans, cui però si aggiunge, filtrata attraverso lo sguardo di William, la fascinazione esercitata da Wade. Viene la tentazione di citare quello che scrive Brunetta a proposito della “trilogia della cavalleria” composta da Il massacro di Fort Apache, I cavalieri del Nord-Ovest e Rio Bravo, laddove parla di un “duplice atteggiamento di Ford, d’ammirazione per il senso di dedizione totale di alcuni piccoli uomini alla realizzazione utopica di creazione d’un ordine e d’un processo di civilizzazione e, al tempo stesso, di non inferiore ammirazione nei confronti di un mondo libero e selvaggio, a sua volta dotato di leggi e di ordine” (1). I personaggi interpretati da Bale e Crowe sembrano in effetti rispondenti ai due canoni, ma volervi vedere un’esemplificazione di due categorie antropologiche sarebbe fuorviante: il farlo significherebbe infatti trascurare una componente fondamentale della pellicola, cioè l’importanza rivestita dalla figura di William Evans.

ImageÈ il regista ad evidenziare fin dall’inizio, nel pressbook del film, l’idea di rimodellare la vicenda ad uso e consumo di un pubblico più giovane di quello del ’57 attraverso il personaggio del ragazzo: Evans e Wade diventano così le due facce di una stessa medaglia, quella della figura paterna. E se già la trama originaria presentava una peculiarità rispetto ai canoni del genere, con un protagonista impegnato non nell’eliminazione fisica dell’antagonista bensì nella salvaguardia della sua incolumità, la considerazione appena fatta giustifica il tradimento narrativo più evidente rispetto al film di Daves: la morte finale di Evans. Siamo oltretutto in presenza di uno snodo che, non infrequente nel recente cinema di genere che presenti un eroe investito di un compito superiore a lui (penso al Clive Owen de I figli degli uomini), è tuttavia difficilmente coniugabile con la storia del western, perlomeno nel periodo classico del genere. Ma il Dan Evans di Christian Bale, viceversa, non solo può morire, avendo raggiunto il suo scopo (mettere Ben Wade sul treno per Yuma); addirittura deve farlo, giacché, con la maturità di William già certificata dal suo comportamento durante il viaggio, la morte del padre e quindi il decadimento dalla condizione filiale divengono il sigillo ultimo e definitivo sul suo passaggio alla condizione di adulto. Detto così di come la strutturazione di un nodo tematico che ruota intorno alla figura paterna porti ad una sorta di modernizzazione dell’eroe - da personaggio non integrato nel corpus sociale a personaggio privato del corpo fisico -, la stessa istanza investe di un processo di fondo analogo pure l’antagonista. Anche Ben Wade è infatti più moderno del suo corrispettivo di cinquant’anni prima, ma la sua modernità risiede in un maggior potere di attrazione nei confronti del ragazzo (e quindi del pubblico, di cui William è appunto una sorta di interfaccia). Un potere di attrazione che è peraltro assolutamente compatibile con lo statuto di star proprio di un attore quale Russell Crowe: il suo Wade è un bell’uomo, veste quasi come un damerino di città, sa essere ben educato, cita a memoria la Bibbia ed è piuttosto bravo nel disegno. Tutti elementi che, anch’essi, smentiscono l’idea di personaggi in grado di rappresentare un’umanità che vada al di là di loro stessi.

ImageNon ci troviamo dunque dalle parti del Ford di fine anni ’40, ma, nonostante il percorso di crescita affrontato da William nel corso del film, sarebbe altrettanto sbagliato voler porre al centro della vicenda una chiara proposta pedagogica. Certo, in più punti emerge un politically correct perfino fastidioso, come nella scelta di inserire l’immagine dei lavoratori cinesi sfruttati o nella reazione disgustata di Evans alla vista di Wade torturato dagli uomini della Pinkerton come fosse un detenuto di Abu Grahib (2). Ma probabilmente è meglio interpretare questi elementi come semplici tributi agli umori attuali, mentre altri, pur analoghi, vanno ricondotti ancora una volta alla stardom di Crowe. È il caso del trattamento riservato al personaggio di Emmy, la barista di Bisbee: nel ’57 il personaggio simboleggiava l’invecchiamento del West e, di conseguenza, il passato perduto del bandito, che rivolgendosi a lei esprimeva la misoginia tipica del genere: “A che serve una donna se non per spendere i soldi?”. Oggi, Crowe da una parte non pronuncia quella frase, difficilmente concepibile, anche considerando che di qui ad un anno la Hollywood democratica probabilmente si troverà a votare per una candidata donna alla Casa Bianca; dall’altra, a differenza del più casto Glenn Ford e in ossequio alla propria immagine di macho-glam, si porta a letto la ragazza (per poi ritrarla in un bozzetto). E, già che si parla di figure femminili, si può notare il ruolo nettamente più marginale ricoperto qui da Alice Evans: nel film di Daves incarnava le istanze della famiglia e dell’immobilità (un’immobilità di cui inizialmente era investito anche il marito, in opposizione alla mobilità di Wade), qui questa funzione scompare e rimane quasi solo quella di mettere in luce, nella scena della cena, il savoir faire di Crowe/Wade. In sostanza, se nel ’57 entrambi questi due personaggi erano coerenti con gli stilemi del western, ora sembrano non avere punti di riferimento certi se non la loro dipendenza narrativa da necessità che non sono tanto quelle del personaggio maschile quanto quelle del suo interprete.

ImageA questo punto può risultare utile qualche considerazione anche sugli altri personaggi di contorno. Infatti, se Daves aveva quasi svuotato il suo West intorno ai due protagonisti, Mangold opera, all’opposto, per accumulo. Ma è un accumulo di figurine, di tipi umani che appaiono strettamente funzionali, anch’essi, al percorso dei due caratteri principali: l’innocente ingenuo, destinato a morire non prima di essersi scoperto capace di un gesto di valore (il veterinario); il cattivo più cattivo di quello “ufficiale” (Charlie Prince); il buono che poi si scopre essere cattivo (il Byron McElroy di Peter Fonda). Quest’ultimo avente come contraltare naturale il cattivo che poi si scoprirà essere buono, cioè ovviamente Wade. Un fuorilegge cui finiamo con il perdonare tutto: i crimini pregressi in base alla sua fatal flaw (in giovane età è rimasto orfano di un padre alcolizzato e successivamente è stato abbandonato dalla madre prostituta), l’omicidio iniziale del membro della banda e del postiglione della diligenza in base ad un preciso codice comportamentale (i due avevano messo a rischio il colpo), quelli a seguire perchè tanto uccide solo persone peggiori di lui. Tornando alle figure di cui sopra, messe tutte insieme compongono un teatrino semplice e stilizzato, dunque di facile comprensione. Si obietterà che è rarissimo che il cinema di genere proponga, al di là della coppia protagonista/antagonista, personaggi provvisti di spessore e di una certa autonomia narrativa. Il punto, qui, è che la monodimensionalità di queste figure non è che una faccia di un processo di semplificazione che Mangold porta avanti anche in altri modi. La psicologia e il suggerito presenti nel film di Daves vengono qui sacrificati in favore dell’esplicitazione, come dimostra appunto la dichiarazione delle fatal flaws dei protagonisti. Di quella di Wade si è già detto; quella di Evans, che nella pellicola del ’57 era riscontrabile in una immobilità piuttosto astratta, qui viene addirittura resa in senso fisico, con la zoppìa del personaggio. Una dinamica per certi versi simile è quella che porta al rivedere le cause della miseria del contadino: lì era semplicemente la siccità, qui ci si mettono anche gli scagnozzi di Hollander, suggerendo l’idea che il pubblico attuale abbia bisogno di una maggiore concretizzazione della materia narrata per potersi appigliare ed appassionare alla vicenda.

ImageMaggiore presenza, quindi, delle figure umane, con i protagonisti esaltati nella loro dimensione fisica ed estetica, in un processo che entrambi gli interpreti avevano già vissuto in passato (facile per Crowe pensare a Il gladiatore; meno scontato, per Bale, ricordare L’uomo senza sonno). Questo approccio è supportato da una messa in scena coerente, fatta di ricorrenti primi piani che tendono però a nascondere l’ambiente dietro il personaggio. Viene così almeno parzialmente sacrificato uno dei cardini storici del genere, nonché elemento centrale, come detto in apertura, anche dello Yuma del ’57: il paesaggio. È interessante notare come esso fosse senz’altro più esaltato nel recente Terra di confine, western tormentato caratterizzato da una regia più “panoramica” e nel quale i personaggi erano definiti anche attraverso il loro rapporto con il contesto sociale (la casa del dottore ai margini dell’abitato, l’esplicita avversione dei protagonisti per le città…). Non è da scartare l’ipotesi che proprio l’insuccesso della pellicola di Costner - che certo non era più il divo di Balla coi lupi, né aveva star intorno - sia stata tra le ragioni che hanno portato Mangold ad una scelta di segno diverso. Via alcuni stilemi del western, allora, ed ecco un film che, solo a cambiarne gli elementi semantici, potrebbe benissimo essere riciclato guardando al poliziesco, al drammatico o all’action (o, per meglio dire, diventare un prodotto che in diversa misura riassuma questi tre generi). Considerando la contemporanea uscita del Jesse James con Brad Pitt - e il grado di “riciclabilità” in generi diversi di divi come lui, Crowe e Bale - si può tranquillamente pensare che la stardom sia divenuta essa stessa un genere. E che a questo, più che ad un western che dopo i fuochi della prima metà dei ’90 non ha più avuto grande fortuna al cinema, appartenga lo Yuma di Mangold.

 

Note:

(1) Gian Piero Brunetta, in Il Western, da G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. 2 (Gli Stati Uniti), tomo primo, Torino, Einaudi, 1999, p. 789.

(2) Il richiamo è suggerito da Marco Giusti nella recensione al film apparsa su Il Manifesto del 19/10/2007

 


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