Gianluca e Massimiliano De Serio PDF 
Ottavio Plini   

Com'è nato l'interesse verso temi così radicati nel sociale? Quale pensate sia stato lo spunto decisivo della vostra ispirazione?
L’interesse verso la realtà che ci circonda è un atteggiamento che ci è stato tramandato dai nostri genitori. Siamo cresciuti in una famiglia di estrazione operaia, che nel corso degli anni si è sempre più interessata alle problematiche sociali e ci ha trasmesso un certo atteggiamento di inquietudine verso le ingiustizie sociali e di solidarietà verso i più deboli. Poi, lo sguardo va allenato, e noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di farlo tutti i giorni, quando per andare in centro prendiamo il tram, o quando andiamo al supermercato. È qui che facciamo i nostri incontri che, trasfigurati, diventano protagonisti delle nostre storie. Nel caso di Sette opere di misericordia, l’ispirazione è venuta in un momento doloroso in cui abbiamo assistito nostro nonno, durante gli ultimi mesi di vita. In questo periodo abbiamo capito il sentimento di misericordia, nel senso di “prendersi cura dell’altro”.

Quali sono i vostri riferimenti culturali, cinematografici e non? Il titolo del vostro ulitmo film, per esempio, fa pensare anche all'arte figurativa del Seicento ...
I riferimenti culturali, in ambito cinematografico, sono sicuramente alcuni registi come Bresson, Antonioni, Pasolini (e non solo i suoi film, chiaramente), ma anche Hou Hsiao-Hsien, Monteiro, Tsai Ming Liang, e tanti altri. Ma sono spesso semplicemente dei gusti, che poi affiorano anche inconsapevolmente nel processo artistico. L’arte figurativa ha sicuramente un’importanza enorme nella nostra formazione, penso soprattutto al ritratto e alle sue innumerevoli declinazioni. Sette opere di misericordia è pervaso di riferimenti più o meno consapevoli ad un certo rinascimento italiano, ma anche ai fiamminghi, primo fra tutti Vermeer e, chiaramente, a Caravaggio, che ha ispirato il titolo.

Qualche tempo fa avete definito Sette opere di misericordia "un film di mistero". Perchè?
Perché alla base dell’intrigo c’è innanzitutto un mistero. Il film gioca un po’ con il genere del thriller, del noir, ma lo svuota lentamente, lo scarnifica, lo capovolge, fino a quando, una volta sciolto, questo mistero narrativo diventa un mistero interiore, che ha a che vedere con l’animo umano.

Avete annunciato di lavorare già a un secondo lungometraggio ... qualche anticipazione?
Sì, stiamo pensando ad un altro film, ma il processo è solo all’inizio. Sarà comunque inevitabilmente un film diverso da Sette opere, per certi versi più estremo.

Vedete la vostra opera permeata di un qualche "spirito religioso"?
Più che religioso userei il termine spirituale. L’arte ha sempre a che fare col sacro, con l’invisibile, è un dialogo costante con l’ineffabile, anche quando è permeata di fisicità, di corpi e realtà cruda, come Sette opere. Il cinema, poi, si presta ancora di più a questa tensione, proprio per la sua duplice natura di realtà visibile e di fantasma.

Sarebbe nella natura della vostra attività denunciare l'umanità di una carenza di misericordia? O forse la società capitalista? O ritenete vi sia più consono suggerire la misericordia senza fare del moralismo?
L’animo umano contiene la possibilità della pietas, che contrasta con una società dove questa è bandita, relegata a gesti isolati, o fatta appannaggio di una concezione puramente religiosa. Noi abbiamo cercato di rimetterla al centro, chiedendoci, senza moralismi, se è ancora possibile una certa forma di misericordia, anche in situazioni estreme dove sembra non esserci. La risposta, chiaramente, sta agli spettatori.

Come interagite nel vostro lavoro? Vi sentite, per esempio, come gli "inseparabili" di Cronenberg, opposti e complementari, o prevale la comunanza d'intenti?
Di solito cerchiamo di far prevalere la comunanza di intenti, anche se discutiamo chiaramente moltissimo. Il cinema è un lavoro collettivo, fatto di scontri, proposte, compromessi che sono sempre qualcosa in più rispetto ai punti di partenza. Noi siamo in due e sperimentiamo già su di noi quello che sarà il lavoro di gruppo con la troupe e, perché no, col pubblico.

Come vedete l'attuale panorama cinematografico e culturale italiano, e torinese in particolare?
Lo vediamo molto male, a essere sinceri. Le creatività, che eppure ci sono, vengono cassate in partenza da un sistema - produttivo, finanziario, distributivo - che non aiuta, soprattutto se sei giovane e figlio di nessuno. C’è anche un’assurda standardizzazione, che è figlia di una pigrizia culturale tipica di una certa Italia recente. Accogliamo con favore, però, i tentativi di alcuni esordienti dell’ultimo periodo di proporre sguardi nuovi. Torino è una città che potenzialmente ha tanto da dare al cinema e alla cultura in genere. Mancano però nuove realtà produttive e, soprattutto, è carente la formazione. Noi, di recente, abbiamo lanciato una nuova realtà, il Piccolo Cinema. È un luogo di discussione aperto a tutti, in periferia nord di Torino, dove chiunque potrà venire e condividere idee sul cinema, risorse, professionalità, visioni. Un modo conviviale e libero di vivere la passione per il cinema.

Qual è il vostro messaggio ai giovani ispirati dal cinema e dalla regia?
I giovani sanno come muoversi, le tecnologie digitali aiutano l’espressione. Forse potremmo consigliare di uscire un po’ dai recinti in cui viviamo in questo Paese, e  vedere il più possibile cosa si fa nel mondo. E seguire le proprie ossessioni …

 


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