Niente da nascondere PDF 
di Paolo Fossati   

Uscendo da un cinema semideserto, dopo una proiezione pomeridiana di Niente da nascondere, assisto ad un prodigio: due giovani fidanzati chiedono alla coppia di anziani seduti alle loro spalle se hanno capito il finale del film. Non si conoscevano, prima. Poi, azzardando interpretazioni, seppur indispettiti dal fatto di alzarsi dalle poltroncine senza aver ottenuto una chiara soluzione degli enigmi proposti sullo schermo, questi sconosciuti celebrano per necessità il rito scomparso del dibattito. Incantato osservo la scena di nascosto e decido che ne parlerò nella mia analisi del film al sopraggiungere di un pensiero: in una società sempre più dedita allo spaccio di verità inconfutabili, quale miglior effetto può rincorrere un regista se non liberare negli spettatori l'urgenza di porsi quesiti?

Non rassegnarsi ad un finale aperto è un male, anche se dal fastidio può nascere l'impulso ad una relazione, la voglia di una discussione. Non accettare l'ambiguità sviscerata da un prodotto nato dall'immaginazione è un sintomo che indica un malessere diffuso: la necessità di certezze e la pretesa di trovarle nelle opere di fiction. Se la finzione non svela tutto ciò che sembra promettere lo spettatore si sente tradito anche quando essa rappresenti la cosa più vicina alla realtà. É il caso di Haneke, che crea disagio e infastidisce risvegliando temi scomodi, non perché siano tabù, ma a causa della mancata catarsi finale. Non sono i tempi dilatati del film o le allusioni a fatti storici lasciati sullo sfondo, senza approfondimenti, che lasciano allo spettatore una sensazione di incompiuto, quanto un vero desiderio insoddisfatto. Si trattasse anche solo di curiosità, se non di esigenza intima, basterebbe comunque a dilaniare le menti non pacificate, ad instillare inquietudine o, nella migliore delle ipostesi, desiderio irrefrenabile di analizzare il film. Il limbo che si abita durante l'attesa della rivelazione finale è un regno dove incalza una bramosia paragonabile all'impeto sessuale portato all'estremo limite (e momentaneamente disinnescato prima di esplodere) mostrato nella celebre scena de La pianista girata nelle toilettes. Niente da nascondere, in più, non scioglie gli enigmi.

Ci troviamo, qui, dinanzi ad un cinema che ferisce. Dopo il viaggio nell'universo filmico, l'aspirazione al non accontentarsi di tornare alla propria realtà, vantando fieri il possesso di un souvenir preconfezionato in serie dall'autore, lascia il posto alla capacità di realizzare che il ricordo che la storia vuole donarci consiste nella voglia di capirne il meccanismo narrativo stesso, si esprime nell'urgenza di porsi domande. Assistiamo ad una rappresentazione che recide il cordone ombelicale che la lega ad una storia specifica per liberare una prole di istanze che si vanno ad insinuare nei meandri della Storia. Capita che l'unico ricordo di una visione di questo tipo sia una cicatrice (e una delle peggiori... di quelle che non ricordano un duello, ma una distrazione fatale): la consolazione in questo caso è la speranza che quel segno traumatico possa, un giorno, scatenare la necessità di una seconda visione.

Cercare risposte chiare e concise ai quesiti sullo schermo non è una colpa, ma non riconoscere la portata di alcune tematiche universali nascoste dietro a fatti specifici è un errore di valutazione che conduce a perdersi in un vicolo cieco. É ciò che accade nel film al protagonista Georges (Daniel Auteuil), che ha impostato la propria vita nella ricerca di un ricongiungimento della dicotomia tra ciò che realmente accade e ciò che lui desidera. Il problema non è nel processo creativo che consiste nel cercare di plasmare la realtà, attribuendole una forma mostrabile, ma nel passo falso di cominciare a credere solo alla versione artefatta degli eventi. L'errore imperdonabile è ricongiungere la Storia con la propria, personale e privata, versione dei fatti. Più volte in Niente da nascondere il protagonista assume questo atteggiamento, tiene segreti, mente alla moglie (Juliette Binoche). Georges conduce un talk show popolare in cui si parla di libri, attuando quindi, per forza, un'operazione di conversione del linguaggio letterario in lingua parlata, una codifica dell'aulico in chiacchiera televisiva. E se non bastasse il fatto che lavora in tv si dica che la stessa scenografia dello studio dove si registra il programma è modellata sull'archetipo della sua casa (e quindi del sua intimità domestica, di ciò che vuol mostrare di essa): nelle scene girate nei due diversi ambienti l'immagine ricorrente alle spalle del protagonista è costituita da una libreria (quella nell'abitazione è colma di volumi, la sua versione tv è satura di libri finti, tristi simulacri di cultura relegata in una realtà condizionata, conoscenza al contempo sminuita e artefatta nell'atto nobile del divulgarla).

Georges fin da bambino sembrava voler essere unico regista della propria realtà. Pretendeva di programmare il proprio destino in modo talmente netto da dimenticare che può esserne protagonista, improvvisando, come tutti, dinanzi alle difficoltà. Aggirava i problemi avvistandoli in anticipo, non li affrontava. Far cacciare con l'inganno il fratello adottivo piombato nella sua vita per decisione dei genitori, piuttosto che provare ad accoglierlo, è stata per lui una soluzione definitiva. O almeno così credeva che fosse. Decenni dopo un nuovo problema scuote la sua esistenza: riceve videocassette che attestano come egli sia costantemente spiato. La polizia non può intervenire sul problema per risolverlo alla radice e la reazione di Georges è impulsiva, netta ed energica. La nuova inquietudine finisce col saldarsi con la vecchia situazione, che lui stesso scopre irrisolta: rivede il fratello, cerca in lui tracce di colpevolezza. Anche Georges necessita di una seconda visione: deve trasformarsi in spettatore della propria storia per comprenderne il senso. In conclusione l'ennesimo tentativo di fuga dalla realtà, attuato con la complicità di alcuni sonniferi, si salda beffardo con l'attimo iniziale dei suoi rimorsi, quando, senza aver davvero risolto il proprio enigma, non gli resta che spogliarsi e coricarsi al buio, per tornare a sognare il proprio incubo in soggettiva: il momento dell'antico errore, l'attimo in cui iniziò a vedere le conseguenze del proprio gesto di prevaricazione e rimase fermo, solo ad osservare.

Il finale del film è aperto, nell'ultima inquadratura, mostrando in lontananza l'incontro tra il figlio di Georges e quello del suo temuto fratellastro, Haneke ci suggerisce l'idea che la vita scorre più veloce di qualsiasi ritmo si tenti di imporle. Non abbiamo bisogno di particolari per saper che la vita è indomabile e si muove più veloce di qualsiasi spiegazione, basta un cambio di focale affinché i fatti evocati e rimasti sullo sfondo appaiano più nitidi. Il finale è aperto, la sentenza spetta al futuro: mostrare che due giovani possono incontrarsi consegna a loro il testimone per diventare protagonisti di nuove vicende ed equivale ad affermare che, purtroppo, erediteranno anche tutti i problemi rimasti in lontananza, ma evocati dal film, come alcuni irrisolti rapporti culturali (si cita il massacro degli algerini a Parigi del 1961) e la recente guerra in Iraq (chiare le immagini dei telegiornali mostrati, che chiamano in causa anche l'Italia).

 


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