Elephant PDF 
Aldo Spiniello   

Image“La maggior parte della gente non ha idea della sensazione che proverà tra cinque minuti. Per un tossicomane è diverso, lui lo sa, gli basta leggere un’etichetta… sono ancora vivo e spero che mi tengano in vita”. Con queste parole, affidate ai pensieri di Bob/Matt Dillon, finiva Drugstore Cowboy, lo splendido film del 1989 di Gus Van Sant. Parole che suggerivano frammenti di una verità troppo spesso dimenticata: la gioventù è l’esigenza di vivere in maniera piena, immediata, autonoma le  proprie emozioni. È un desiderio incontenibile di libertà, possibile solo nell’assoluta fedeltà a sé stessi.

I “drugstore cowboys” andavano alla ricerca di un brivido di vita nella rapina e nelle droghe, esperienze che supplissero in qualche modo alla mancanza di stimoli di una quotidianità asfittica, ai giorni sempre uguali a sé stessi del “tranquillo” miraggio famiglia-lavoro. Lo squarcio in un altro mondo, aldilà delle casette dalle superfici laccate, come in un sogno di Lynch. Allo stesso modo i protagonisti di Belli e dannati, nel vendere il proprio corpo, rivendicavano la disperata ricerca di una felicità impossibile, o quanto meno di un’identità, di una faticosa appartenenza a una “famiglia” autentica che restituisse un senso di pace. Fino alla presa d’atto in Last Days che una vitalità vissuta all’estremo è, forse, sempre destinata allo sacco. In fondo i giovani di Elephant, film del 2003 Palma d’Oro e miglior regia a Cannes, sembrano avvertire il peso dello stesso problema. Trovare un modo di esprimere la propria vita, repressa da un mondo in cui ci si muove come fantasmi. Gli adulti, a cui spesso non è dato neanche un volto, sono davvero presenze fantasmatiche, e quindi assenze. Riempiono (o svuotano) lo schermo nello spazio di pochi istanti, mancano al nostro sguardo (e a quello dei giovani protagonisti), non si danno mai come punti di riferimento. Madri o padri mancanti…il cinema di Van Sant è sempre il sogno frustrante di un ritorno alla casa del padre. A riempire, invece, lo spazio dell’inquadratura sono sempre e solo ragazzi. Gli attori non professionisti sono adolescenti, liceali come tanti altri, non più drop out belli e dannati. Van Sant, nei suoi estenuanti long takes, li segue, li smarrisce per un attimo, per ritrovarli poi, in un continuo giro a vuoto, come in un auto che spinge sull’acceleratore, ma non ha più presa a terra, alla Terra.

ImageGus Van Sant rievoca la strage del liceo di Columbine, ma la ambienta nella sua Portland, disancorandola dal dato storico. E già in questa scelta rende palese la volontà di non dare spiegazioni sociologiche a un fenomeno, né tanto meno di lasciarsi andare a psicologismi di sorta. Del resto lo stesso regista, nello spiegare l’origine di un titolo così enigmatico, Elephant, richiama la parabola buddista dei ciechi che non riescono a definire la natura dell’elefante dal solo tatto. La macchina da presa tocca i ragazzi del liceo di Portland, ma non riesce mai a comprenderne la natura profonda, l’essenza. E la costruzione stessa del racconto, con i piani sequenza che sembrano riavvolgersi su sé stessi mandando continuamente avanti e indietro il tempo, rinnega qualsiasi logica diacronica e qualsiasi rapporto di causa ed effetto. Semmai ad affermarsi è l’idea di un tempo sempre uguale, quasi eterno. Quindi, paradossalmente, morto. Ecco, Van Sant registra nei suoi giovani assassini una mancanza di vita, di slancio, di passione. Alex ed Eric compiono molte azioni prima di andare al macello, ma non sembrano realmente interessati a niente. Pensando alle parole di Blue in Verso il sole, il loro cuore non è collegato alla mente. Lì c’è un giovane delle gang che andava alla ricerca della propria identità, della propria innocenza smarrita. Qui ci sono due ragazzi che provano a compiere lo stesso percorso, ma in direzione opposta. Non escono dall’inferno della realtà per cercare il paradiso dello spirito, ma fuggono da un mondo senza più leggi di gravità per immergersi nel terrore e ritrovare così il punto di contatto con il concreto. Provano drammaticamente a ri-sentire il proprio corpo ammazzando. Per questo si baciano nella doccia. Contatti, pelli, umidità disperate. Ma la loro incoscienza li tiene ancora scollegati.

Quella di Alex ed Eric è l’ennesima partita ai videogames, la realtà è ancora fuori campo. Ci si muove in un incubo malato, seguendo una steadycam tra i corridoi di un altro terribile Overlook Hotel. E noi spettatori non stiamo vivendo qui e ora, non stiamo guardando alla nostra società occidentale e alla sua crisi. Stiamo assistendo a un orrore fuori dal tempo, quello di un’umanità che ambisce ad allargare l’orizzonte, a ridefinire bellezza e bruttezza, ma arriva alla follia. Perché, forse, provare il brivido della vita significa toccare la morte con mano. 


TITOLO ORIGINALE: Elephant; REGIA: Gus Van Sant; SCENEGGIATURA: Gus Van Sant; FOTOGRAFIA: Harris Savides; MONTAGGIO: Gus Van Sant; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2003; DURATA: 81 min.

 


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