Il primo uomo e la mano di Bruno PDF 
Francesca Dimasi   

Ogni storia comincia dall'inizio, e se comincia dall'inizio è a esso che tende, costantemente, poiché l'inizio delle cose è ciò che più le allontana dalla fine. I film di Gianni Amelio ci hanno sempre abituati a una ricerca perenne dell'origine, quella del conflitto, quella del ruolo, quella del giudizio. E in tutti questi casi l'esito si è concluso con un niente di fatto, o meglio, ha rivelato come l'inizio, il punto prima del segmento, il soffio su Adamo, il big bang di ogni cosa, siano solo sofismi circolari destinati a un cul de sac. In breve, ogni fenomeno che si dà come principio è assimilabile all'antico paradosso dell'uovo e della gallina, sottraendosi al carattere assoluto che si vede attribuire e, anzi, sbilanciandosi verso una più opaca ambiguità. La cinematografia di Amelio si configura in questo senso come una lunga antologia di storie che conducono alla mancata origine, percorsi a ritroso per lo più, ma che alla fine della via trovano solo un nuovo inizio. Per citare lui stesso, diciamo che la fine di un film, e aggiungeremmo la fine di ogni racconto, è ciò che più di ogni altro momento testuale scatena frustrazioni, suscita disappunto, coagula il discorso fino a far insorgere lo spettatore (o il lettore), dispenser inesauribile di finali alternativi. Ma proprio il momento della chiusura, sottolinea ancora Amelio, designa un atteggiamento morale, una posizione decisionale e decisiva dell'atto autoriale, in cui si sancisce non tanto l'esaurirsi della “storia” quanto, diciamo noi, quello dell'opera. La storia, al contrario, resta aperta, più che a nuovi finali a nuovi inizi.

Allo spettatore indocile nell'ora di accettare il finale, Amelio sembra rispondere disabituandolo all'idea stessa di finale e frenando invece sull'inizio, il cui concetto sollevato dal piano della griglia narrativa (di cui è sezione strutturale) slitta al piano tematico (la ricerca delle origini) per riversarsi infine su un piano più propriamente estetico-discorsivo (la riflessione sull'origine). In genere, nelle opere di Gianni Amelio, questa origine ha un nome: il nome del padre. Il soggetto affettivo, sociale, istituzionale più costitutivo diviene la meta ultima del cercare, l'origine perduta condotta a una identificazione totale con la ricerca stessa. All'origine dell'ultima ricerca, Il primo uomo, c'è un romanzo incompiuto, un'opera privata della fine e, per un macabro gioco del caso, rinvenuta accanto al suo autore, Albert Camus, proprio al momento della sua fine. L'incompiuto, dicevamo. L'opera mozza il cui valore estetico è indissolubilmente legato alla mancanza, quella della fine, però, non dell'inizio. E invece Amelio, controvertendo la logica del trovare il pezzo mancante, ciò che completa quel che è stato interrotto, porge la schiena alla fine e torna all'inizio abbracciando il paradosso dell'opera camussiana orfana di un epilogo ma in cerca di un prologo, derubata di un dopo ma intenta a riscattare un prima. L'assenza dunque è congiunta del principio non della fine, e se non bastasse il titolo, e l'affiche in cui i nomi dei due autori (scrittore e cineasta) vengono accostati alludendo alla profonda condivisione dell'opera e alla comune ricerca che essa pone in essere, il vuoto e la mancanza si affacciano prepotentemente a inizio film in un quadro fuori fuoco, di cui solo una voce e un soggetto che immediatamente percepiamo come estraneo alla narrazione ne sono il contenuto.

L'autore rimanda di qualche attimo l'ingresso del volto titolare della voce off, che scopriamo essere l'uomo di una ricerca preceduta dal paradosso. Il ricercato è un padre ed è un uomo morto, e dunque è dalla fine che la storia ha inizio. In questo modo la fine rappresenta solo un luogo arbitrario da cui una storia prende avvio ed è di conseguenza non più estremità imprescindibile di un asse bipolare (inizio-fine), bensì un punto imprecisato e indifferenziato di una retta infinita che ha espulso i suoi poli di delimitazione. Il fatto che la fine compaia all'inizio di un'opera spuria proprio della fine, ha un effetto di immediata rimarcazione della mancanza, ma di contro agisce anche nel senso di una svalutazione della mancanza stessa, come a volerne liquidare la pretesa sovranità strutturale. Ma quel che si verifica ne Il primo uomo va oltre il superamento della “fine” e prosegue fino al superamento dell'“inizio”. Il quale viene accantonato non solo in termini strutturali (poiché l'inizio comincia da una fine), ma ben presto liquefatto anche negli ingranaggi della macchina narrativa: lo scrittore Jean Cormery, tornato in Algeria alla vigilia del conflitto franco-algerino, ritrova la madre e con essa la memoria della sua misera infanzia. Sebbene il pensiero del padre mai conosciuto e perduto nella Grande Guerra resta vivo, ed è il movente della visita algerina dello scrittore, tanto da tornare nei suoi incontri anche in forme surrogate (il vecchio maestro che gli ha fatto da padre e da mecenate nel proseguimento degli studi), quasi scompare dietro il ricordo dell'infanzia orfana e dietro quelle stesse figure che ne hanno affievolito il peso dell'assenza (il maestro come dicevamo, ma anche il giovane zio, la dispotica nonna, e ancor più la madre, pilastro affettivo capace di risucchiare l'assenza paterna tanto da concludere l'odissea della ricerca comparendo per ultima nella scena finale, come a voler alludere a qualcosa di ritrovato).

Nell'ambito di una ricerca frustrante rivolta a un padre scomparso, privo di fisionomia e di ricordo, privo persino di una lapide, la madre è, di contro, il soggetto più immediatamente rintracciabile. È possibile ritrovarla puntualmente nei posti di sempre (il mercato, la casa...) e anzi la si ritrova in perenne attesa (ha preparato il pranzo anticipando la visita del figlio, ha di nuovo preparato il suo piatto preferito in attesa che rincasi), è insomma il lato secondo e certo di quelle radici che in quel preciso momento storico si rivoltano l'una contro l'altra cercando di annientarsi reciprocamente, l'una prosciugando i sali dell'altra. Il padre assente (come la Francia sovrana) e la madre presente e sempre uguale (l'Algeria viva e tumultuosa) generano un conflitto la cui origine (come il primo uomo stesso) non ha facile identificazione. Il tutto si tramuta in una guerra genitoriale (una guerra di natali appunto, e dunque d'origine), in cui la genitrice Madre Algeria rifugge l'ombra ammorbante del ricordo del genitore, il potente e seminale Padre francese, lontana dal rinnegarne l'antica unione (i flashback, gli unici, in cui il padre appare viene ritratto premuroso e amorevole al capezzale della moglie partoriente), ma determinata ad affrancarsi da un riflesso che ormai è solo memoria (la resistenza della madre di riaprire la questione paterna). Questa lotta è la metafora di una vita che rivendica il suo statuto sulla morte, di una presenza che si afferma sull'assenza, di un durante che scalza un prima e un dopo.

Di primi uomini nelle opere di Amelio se ne trovano a volontà, e sono appunto sempre padri che anche qualora vivi, identificabili, o semplicemente dislocati, sono figure appannate o sbiadite. Anche quando presentano connotazioni di profilo particolarmente articolate (come nel caso di Colpire al cuore) sono fatalmente portatori di un attrito prossimo a infiammarsi, creando scompensi, mutilazioni (esemplare, in tal senso, il disorientamento del giovane arrivista Lo Verso alle prese in Lamerica con il padre “putativo” Placido, sfruttatore e conquistatore senza scrupoli, e il vecchio siculo-albanese, simbolo di una paternità atavica e bonaria in cerca dell'origine perduta). I padri e i figli di Gianni Amelio non sono solo due generazioni a confronto, quanto piuttosto i due piatti di una bilancia in perenne squilibrio, i due nodi inestricabili della matassa della Storia, i due spiriti inappacificabili del giudizio (ancora il padre e il figlio di Colpire al cuore), i disperati della scoperta di ruoli condannati a un'eterna inconciliabilità (drammaticamente esemplificata nella diversità di padre e figlio in Le chiavi di casa).

C'è un figlio particolarmente caro a Gianni Amelio, non un bambino orfano come il suo Jean, un bambino che anzi non si stacca mai dal padre, che costantemente gli tende la mano, che con il padre compie un cammino estenuante e disperato in cerca di qualcosa di indispensabile, un bambino che il piccolo Jean che campeggia sulla locandina del film ricorda inequivocabilmente. Quel bambino è Bruno, sulla cui mano stretta a quella del padre si chiude Ladri di biciclette. La mano di Bruno è quanto di più morale possa darsi come finale di una storia, di un discorso, poiché in quel caso è quella mano che assicura al padre la riconciliazione con un mondo ostile, un mondo di fame e meschinità (proprio come in Porte aperte la mano della bambina spaurita sempre aggrappata a quella del vecchio giudice Volonté). Il primo uomo è l'ultimo capitolo di un'origine incompiuta, laddove cercare un principio significa trovare ciò che sta sul fianco del sentiero, e che vi conduce. Non vi sono mani strette in quelle paterne, ma qui, come allora, in luogo di un primo uomo (o di una bicicletta) è sufficiente tornare indietro, o meglio, “tornare avanti”.

 


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