Boggie Nights: benvenuti anni Ottanta PDF 
Mario Bucci   

ImageIn tre anni, tra il 1996 e il 1998, sono usciti nelle sale italiane tre film statunitensi molto simili tra loro per forma e suggestioni, ma altrettanto distanti per domande, dubbi e soluzioni: Larry Flynt  - Oltre lo scandalo (1996) di Milos Forman, Boogie Nights - L’altra Hollywood (1997) di P. T. Anderson, e Studio 54 (1998) di Mark Christopher hanno portato sul grande schermo, a distanza di breve tempo, quelle che erano le più recenti riflessioni sugli anni che ci si era appena lasciati alle spalle, gli anni in cui il sesso mercificato, la musica come rincorsa del vuoto, le droghe come dipendenza e il successo come natura stavano sostituendo gli ideali costruiti attraverso i movimenti di lotta, attraverso le passioni studentesche e pacifiste, mercificandoli per mezzo di un consolidato senso del consumo. Con una continuità fotografica che in qualche modo rende i tre film molto simili tra loro, tutte e tre le pellicole hanno scelto tre modelli reali per raccontare quel che l’America a suo modo aveva in quegli anni proposto, elevato a modello: un produttore pornografico, un attore pornografico, un locale trendy dove l’immagine/corpo promuove se stessa. Il risultato commerciale e critico dei tre lavori è stato ovviamente diverso. Il film di Milos Forman ha ottenuto un grande successo: un po’ perché primo dei tre, un po’ perché sostenuto da un ben orchestrato lancio nelle sale (con la partecipazione della cantante Courtney Love e l’interpretazione sopra le righe di Woody Harrelson, attore che con il precedente Assassini nati (1994) di Oliver Stone garantiva da solo parte dell’incasso), e un po’ perché sosteneva un diritto, come quello della libertà di espressione, nel quale gli americani si identificano fingendo di riconoscere tutte le loro libertà. Il film di Paul Thomas Anderson, invece, non ha ottenuto lo stesso appoggio da parte della stampa (penalizzato dal fatto che l’argomento “scandaloso” era stato appena affrontato da Forman, e quindi non faceva notizia) ed è stato costretto a marciare come un buon vecchio diesel, ottenendo il successo che meritava sulla distanza. Studio 54 ha recuperato giusto le spese e qualche sorriso, forse perché relegato ad un ambiente, come quello musicale, minore rispetto al più ampio ambiente del cinema pornografico, e del porno in generale, ma anche per alcune indecisioni (incapacità) del regista. Tutti e tre i registi però si sono cimentati con un progetto simile per natura e target, ma tra un solido (e a volte discutibile) Milos Forman e un più ingenuo Mark Christopher, è emerso lentamente il solo Paul Thomas Andersson, che qualche anno dopo avrebbe firmato uno dei film di maggior successo di fine millennio, Magnolia (1999).

ImageBoogie Nights - L’altra Hollywood, infatti, è soprattutto una grande prova di regia, oltre che di sceneggiatura (scritta dallo stesso Paul Thomas Anderson, anche co-produttore), che emerge nel panorama cinematografico perché, reduce dall’esordio nel lungometraggio con il precedente Sydney (1996), si mostra già matura nella forma e nei contenuti. Paul Thomas Anderson quando scrive e dirige questo film fa una scelta ben precisa e difficile, a tratti rischiosa: utilizzare il cinema per riflettere sul lato oscuro di un decennio buio, quello a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Il risultato è sorprendentemente piacevole e ha portato il regista all’attenzione del grande pubblico. Forse proprio perché, in fondo, questo film Anderson lo conservava nel cassetto da tempo, da quando aveva scritto e diretto il cortometraggio The Dirk Diggler Story (1988) con l’anonimo Michael Stein al posto di Mark Wahlberg nel ruolo di protagonista. E quando è arrivata l’occasione per farne un lungometraggio il regista non si è fatto cogliere impreparato. Boogie Nights, allora, è la storia di un giovane adolescente, maschio superdotato, Eddie Adams, disoccupato e anonimo, che grazie alle dimensioni del suo pene diventa simbolo di un’idea del mondo, enorme, grande, potente, maschile, destinata all’autocompiacimento e all’impotenza. Il superdotato Dirk Diggler (lo pseudonimo che il protagonista Eddie sceglie per il suo ruolo nel cinema porno) crede di avere nel suo pene la chiave del successo, e, attraverso la grandezza del suo membro, crede di ottenere la magnificenza del sogno americano. Egli rappresenta l’idea potente e fallocentrica del mondo, attorno alla quale si radunano alcuni simboli (negativi) della società in evoluzione. Boogie Nights, infatti, non è solo un’idea acquisita sotto forma di società, ma più un giudizio su una condizione nella quale questa si è trovata in un preciso momento: difatti il film ha una sua collocazione storica ben chiara, il passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, o meglio sarebbe dire quando l’enorme parabola degli anni Settanta si è afflosciata sugli anni Ottanta. Figli (vittime) di questa condizione in libera caduta sono un gruppo di “artisti” che, persa la propria identità, la recuperano attraverso quello che fanno, non più quello che sono. Nel percorso di Dirk Diggler vengono così messi da parte gli affetti, le paure e le inibizioni, vengono rincorsi i vizi e i desideri di breve consumo, perché riconoscersi in qualcosa è l’obiettivo da raggiungere, più grande di qualsiasi dignità, quando la società non te ne dà alcuna (Rollergirl umiliata il giorno dell’esame, Buck che non ottiene il prestito dalle banche). Questa idea del mondo e delle cose, produce un effetto disastroso che è il circuito edonistico che ci ha travolto durante gli anni Ottanta, dove il corpo ha preso il posto dell’anima, il prodotto ha perso il senso della creazione, e dove il corpo dell’uomo ha sostituito il corpo della donna (e la sua energia “creativa” proposta nella rilettura sessuale degli anni Sessanta) rifiutando un modello per incarnarne un altro, più violento, aggressivo (l’intervista a Dirk, inserito e assuefatto dalla violenza della società). Attorno al superdotato si muovono diverse sfaccettature dello stesso mondo, e così diventano tutti alter-ego di Dirk, coloro che attorno al totem degli anni Ottanta si radunano, si inginocchiano, per riconoscersi.

ImageC’è nel personaggio di Dirk Diggler, come nella migliore tradizione narrativa, un destino segnato sin dall’inizio (la drammatica sostituzione della famiglia di sangue con la famiglia lavorativa è solo il primo dei traumi di un adolescente nel mercato del benessere, del consumo), un alone di triste condanna che lo circonda così come accade ai personaggi interpretati da Al Pacino nelle mani di Brian De Palma, intorno alla quale ascesa o caduta si raccolgono personaggi di sfondo, co-protagonisti manipolati da Paul Thomas Anderson e orchestrati con buona dose e bravura. Boogie Nights raccoglie l’insegnamento dei grandi maestri del racconto come Robert Altman (scene collettive) e Martin Scorsese (montaggio dinamico dei fatti). Anderson infatti, partendo da questa idea del passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, mette in campo un ventaglio di insegnamenti che si consolidano nella costruzione e nella scelta di un gruppo coeso (attori tutti in grande forma), ben gestito, ben caratterizzato, che rinasce e poi ricade con Dirk Diggler: una famiglia di veri perdenti, persone che hanno fallito l’appuntamento con la propria carriera e che con la pornografia hanno una seconda chance. Jack Horner (la barba di Burt Reynolds) è un regista che vorrebbe fare un vero film; Rollergirl (la carne di Heather Graham) è una studentessa che ha fallito con gli studi; Maggie (il volto di Julianne Moore) è una madre che non riesce a mantenere l’affidamento del figlio; e poi un attore senza identità che vorrebbe aprire un negozio di hi-fi (i capelli di Don Cheadle); un colonnello a cui piacciono le bambine… Oltre ad una divertente messa in scena dunque (rare le sequenze in cui ci sono meno di due personaggi attivi) il regista si è divertito mostrando una più complessa capacità di usare la materia cinematografica, come nella scena del primo giorno di riprese di Eddie: macchina a mano (interno della scena), totale (esterno scena/regia), obbiettivo (oggetto macchina/pellicola). Una sequenza complessa, ben riuscita, e che in qualche modo mostra ancora un debito scolastico (come il piano sequenza iniziale, a pedinamento, che ricorda quello di Carlito’s Way ancora Brian De Palma).
 
Da un punto di vista formale, allora, non si può negare che Boogie Nights sia un film ben riuscito, piacevole, “moderno” ed estetico, che fa scivolare le oltre due ore di messa in scena con calibrati plot point, a volte anche originali. Ma se da un lato vi sono molti elementi interessanti che hanno permesso a Paul Thomas Anderson di distinguersi tra le nuove leve americane, come la capacità di scrittura e di gestione di un ampio gruppo di attori e personalità narrative, e una coralità di linguaggio sia visivo che ritmico, è vero anche che qualche eccesso può averlo reso ambiguo e antipatico a una parte del pubblico. C’è, infatti, in questo regista una forte componente di antica natura che caratterizza parte delle sue scelte. Anderson si rifugia spesso in particolare icone narrative come il battesimo (la piscina di Jack), la parabola del figliol prodigo (il ritorno a casa di Eddie), che non nascondono una formazione comunque archetipica del racconto, fortemente simbolica, eccessivamente sacra: il porno è ambiente narrativo, ma a volta si ha l’impressione che non sia solo ad uso di metafora del consumismo. In fondo Buck lascia il mondo del cinema porno e viene premiato dal destino con una busta di soldi grazie ai quali può aprire un negozio di hi-fi; Rollergirl, umiliata nel suo lavoro da un ex compagno di classe, torna agli studi… Con leggerezza narrativa, dunque, e un finale agrodolce, il regista riesce a far passare questa sua particolare ispirazione, nel successivo Magnolia esasperata fino alla pioggia delle rane (per altro davvero ben riuscita). In questo suo nascondersi, forse, si capisce perché diventa necessario al fine della storia quel particolare sguardo sul personaggio di Jak Horner (che allude al regista Gerard Damiano per icona e percorso) e al quale consegna la resistenza  romantica che si oppone  al cinema di consumo in nome del cinema come arte. Così facendo Paul Thomas Anderson ammorbidisce un disegno sin dalle prime immagini comunque pregno di condanna e giudizio. Piccolezze comunque di fronte ad un ottimo risultato complessivo.

ImageBoogie Nights, insomma, è senza dubbio un gran bel film, con qualche eccesso moralistico, ma, almeno, con una lucida analisi sugli anni Ottanta. In fondo il film non fa altro che seminare e raccogliere decine di indizi che portano il pubblico al disperato bisogno di non partecipare alla catastrofe: il capodanno con il morto, l’introduzione al nuovo decennio, un prologo all’esplosione disperata della violenza che strapperà sorrisi sostituendoli con pugni, schiaffi e sesso fatto in limousine. La società fallocentrica occidentale (che ha gestito come vittima e carnefice il secolo delle guerre) si ingigantisce reagendo e oscurando l’immaginario femminile, seminando di simboli il proprio cammino: pistole, automobili, moda maschile, “eleganza italiana” sono tutti elementi di opulenza e ostentazione, che anche se più elaborati, lavati, ripuliti, sbarbati, come li presenta Richard Gere in American Gigolò (1980) di Paul Schrader, assumono pur sempre un carattere di mercificazione, come qualsiasi altra cosa. Il terreno è lo stesso, quello della fragilità dell’immagine che si percepisce di se stessi. Cambiando il punto di vista delle cose, sembra voler affermare Paul Thomas Anderson con Boogie Nights, possono cambiare anche le dimensioni degli obiettivi e la percezione del reale: tutto diventa grande dal basso, irraggiungibile, e per questo sempre più grande, e per questo sempre più irraggiungibile. Ci si è affacciati al decennio in ginocchio, benvenuti anni Ottanta.

PS: Per la cronaca: Michael Stein, il Dirk Diggler nel cortometraggio del 1988, in Boogie Nights è quello che vorrebbe comprare lo stereo da Don Cheadle, e poi rifiuta.

TITOLO ORIGINALE: Boogie Nights; REGIA: Paul Thomas Anderson; SCENEGGIATURA: Paul Thomas Anderson; FOTOGRAFIA: Robert Elswit; MONTAGGIO: Dylan Tichenor; MUSICA: Michael Penn; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1997; DURATA: 153 min.

 


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