Dear Wendy PDF 
di Mario Bucci   

Si può scrivere una lettera d'amore rivolgendosi ad un'arma da fuoco? Sì, se a raccontarvi di questa cosa sono Lars Von Trier (sceneggiatore) e Thomas Vinterberg (regista), due dei principali cineasti che esattamente dieci anni fa provarono a sconvolgere il panorama cinematografico con il loro Dogma, senza riuscirci in verità, ma contribuendo a provocare un approccio intellettuale al grande schermo che stagnava da tempo. Con questo film la sostanza non cambia (la provocazione), sebbene il Dogma sia ormai alle spalle.

Siamo ad Estherslope, in Virginia (U.S.A.), ma più precisamente ad Electric Park, la piazza sulla quale si affaccia la casa di Dick, e sulla quale si affaccia il destino di un gruppo di giovanissimi che un giorno, armi in pugno, decide di chiamarsi "Dandies" e di dichiarare guerra alle proprie paure. Nel baratro si sprofonda per gioco però, per sufficienza, e perché un'arma da fuoco non può che sparare. C'è tutta l'America di questi anni nell'ultima fatica di Thomas Vinterberg, il paese che convive con le armi da fuoco, che produce costantemente uno sfilacciamento tra generazioni differenti (il gruppo è solo e non ha dialogo con altri cittadini) e che uccide i suoi figli (che lascia che si uccidano) per mancanza di dialogo, istruzione e comprensione (le vere coordinate di questa distanza). Le intenzioni dei due autori sono chiare dunque: demonizzare le armi da fuoco e la loro cultura, senza vie di fuga o giustificazioni, tanto che tutti coloro che ne impugnano una, o che ne condividono la presenza o l'uso, scoprono sul proprio corpo che un'arma da fuoco è fatta per sparare e per uccidere (o amare, come dicono i "Dandies") e per niente altro.

È una critica al pacifismo armato allora, alla democrazia esportata dall'America negli ultimi anni, ad un modello che, spinto da un cieco terrore si congestiona per poi esplodere già al culmine di una cancrena (il Tempio che è in realtà una fabbrica dimessa). È il Male (l'arma) che si rivolta contro se stesso, in una storia che procede dunque per ellissi, tutte compiute, in un crescendo marcio di paradossi (il caffé), stimoli violenti (la competizione del potere) per giungere ad un finale che coinvolge tutto e tutti nel suo assurdo, completo dramma, con tanto di tradimento/riappacificazione (Wendy nelle mani di Sebastian, la morte di Dick, l'unione fatale tra Wendy e Dick). La responsabilità delle famiglie, anche se latente nelle maglie del film, pesa sui ragazzi come un macigno, con un padre che non riesce a offrire di meglio a suo figlio che un lavoro in miniera (nella quale poi egli stesso muore) o come la madre di Susan, che non appare mai nel film, ma che nella morte libera la figlia, ora finalmente in grado di crescere. Thomas Vinterberg riesce bene dunque a descrivere una situazione astratta che ricorda proprio la Dogville (2003) di Lars von Trier (non solo nella pianta stilizzata della piazza), lontana effettivamente da un tempo corrente (come la provincia americana realmente vive il proprio tempo), che potrebbe essere vecchia di quarant'anni (il disco degli Zombie), cento anni (il topos della domestica di colore; la pistola di Huey) o assolutamente contemporanea (punkdandy).

Interessante è anche l'analisi dello stato di panico in cui vive la cittadina. Il proprietario del supermarket e l'anziana Clarabel sono infatti terrorizzati da bande violente di cui tutti parlano ma che non si vedono, e che servono per giustificare la necessità dei ragazzi di girare armati, per sentirsi al sicuro, per sentirsi più forti, più adulti, tanto da ingaggiare un duello a fuoco con un intera squadra di poliziotti. Dear Wendy diventa allora un western di nuova generazione, con tanto di duelli e rivalità maschili (dove serpeggiano razzismi e omosessualità cameratesche), che rovista nel genere americano per antonomasia sostituendo il mito della frontiera con una rivalsa nei confronti del vuoto (la paura è l'unico vero obiettivo dei ragazzi). Con un'arma in pugno si cresce (i seni di Susan) si guadagna rispetto (non ci si fa da parte quando passano gli operai) e soprattutto si crea un'identità che poi diventa appartenenza ed infine gabbia (il percorso di migliaia di gangs cresciute nel ghetto).

Per descrivere questo inesorabile sprofondamento Vinterberg sembra voler ripartire proprio da un mondo dove i desideri si realizzavano, i margini metropolitani dai quali Jamie Bell/Billy Elliot evadeva ballando, e che adesso invece si chiudono su se stessi inghiottendo Jamie Bell/Dick ed i suoi amici. Fonti di ispirazioni, o semplici citazioni, tante: si parte dai più maturi marchettari di Belli e dannati (1991) di Gus Van Sant - che tornano in mente oltre che per i vestiti di scena proprio per quell'atteggiamento dandy nei confronti della deriva - passando poi da Doom generation (1994) di Gregg Araki ed Elephant (2003) ancora di Gus Van Sant, dove il rapporto tra l'arma da fuoco e chi la impugna è al tempo stesso freddo, distaccato, (iper)realistico, asciutto e delirante (Clarabel che spara al poliziotto), in una Electric Park che ricorda tanto anche i Five points di Gangs of New York (2002) di Martin Scorsese - un altro film al quale Dear Wendy strizza l'occhio sia per la messa in scena che per il cuore del tema affrontato -, per arrivare infine ai Drughi di Arancia Meccanica (1971) di Stanley Kubrick, anche se loro non sono mai scesi dalla loro prima volta sul grande schermo. Non si tratta di anarchia, ma di un teorema semplice e ben preciso: se tutti possiedono un'arma, basta poco e prima o poi ci scappa il morto, o più di uno.

Come ci si ritrova allora a scrivere una lettera d'amore ad una pistola? Semplicemente per gioco, inconsapevoli di cosa sia la morte, del corpo come dei sentimenti (riversati invece sulle armi). Girato in Danimarca (il set è stato interamente ricostruito), Dear Wendy è lontano ormai dal Dogma (che non voleva film di genere, mentre qui si tratta di un western "rimpicciolito", alla Jodorowsky) eppure ne conserva la vitalità provocante che lo trasforma in un film discreto, con brevi cali di tensione, ma intelligente e soprattutto furbo e irriverente (pensare che tutto accade per un caffé!). Giustamente incoerente come il mondo nel quale viviamo. Impressionante la fotografia di Anthony Dod Mantle, collaboratore fisso del regista, ed il risultato del gruppo (che si dice si sia esercitato a sparare sul set per prender confidenza con le armi), ben costruito e che, poco curato nei tratti dei personaggi, guadagna in espressività e naturalezza. Un Vinterberg non ai livelli di Festen (1998,) ma con lo sguardo rivolto da un'altra parte. Billy Elliot non balla più dunque, adesso spara, dear Wendy.

 


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