Alejandro Amenàbar: ossessioni dal profondo PDF 
di Lorenzo De Nicola   

Apri gli occhi! Sussurra una voce su sfondo nero, Apri gli occhi!

Inizia così il suo secondo lungometraggio, quasi fosse un manifesto della sua poetica. L'intenzione è subito evidente. Amenàbar richiama il pubblico ad abbandonare le personali percezioni per lasciarsi trasportare all'interno del film/sogno/incubo che sta per cominciare. Non servono più le incisioni dei globi oculari, basta una semplice voce per comunicare che da quel momento in poi qualsiasi informazione messa in scena potrà essere oggetto di più interpretazioni in un gioco morboso e accattivante.

Che la realtà non abbia alcun valore il regista l'aveva già dichiarato fin dalla sua opera prima. In Tesis, infatti, i ribaltamenti repentini, stereotipi insostituibili del thriller, vengono portati all'eccesso. La tensione si crea dall'effettiva confusione dei ruoli che s'instaura tra i personaggi. Tutti possono essere innocenti o colpevoli, dando vita a più forme di realtà che coesistono ed hanno un sapore squisitamente pirandelliano. Niente può essere dato per scontato perché nulla è scontato.

La classica struttura dell' equilibrio/disequilibrio/equilibrio finale, è stravolta e strapazzata al punto tale che l'happy ending nasconde i germi di qualcosa di oscuro che ha mutato per sempre lo spirito dei personaggi, la loro purezza, la loro consapevolezza. Il terrore angoscioso che attanaglia gli spiriti irrequieti di The Others nel momento in cui scoprono la loro condanna eterna non è dissimile dal salto nel vuoto di César (Eduardo Noriega), dalla presa di coscienza della dipendenza dall'immagine e dei suoi effetti da parte di Chema (Fele Martinez, alter ego fin troppo evidente del regista) e Angela (Ana Torrent). Ma se da un lato Amenàbar attacca il reale e le sue interpretazioni, dall'altro punta il dito anche contro la veridicità della diegesi.

La messa in scena è menzogna o, quantomeno, proiezione fittizia della realtà. Lo snuff movie, produzione con cui si scontra l'ingenua Angela, è l'esempio più concreto (proprio per la sua estrema ambiguità) attraverso cui il regista esprime i suoi dubbi. Infatti, se si devono considerare ricostruite quelle morti in diretta, allora siamo di fronte all'apice della finzione; al tempo stesso, l'eterno dubbio dell'esistenza di tali prodotti alimenta un alone mitico intorno ad essi tale da renderli ugualmente privi di consistenza. Questo valeva per Tesis, ma con Abre los ojos il regista compie lo scarto decisivo. Il suo discorso si sposta dal contenuto al linguaggio. L'assunto è il medesimo, ma la tecnica per affrontarlo cambia radicalmente. La scelta di frantumare lo svolgimento cronologico della narrazione intende offrire la rappresentazione della dimensione onirica del personaggio ma, al tempo stesso, è indubbia la volontà di decostruire l'oggetto filmico sin dalle sue fondamenta. Allo spettatore sono volontariamente sottratti gli strumenti per avanzare qualsiasi supposizione in uno degli esempi più estremi di focalizzazione interna. Se questo tipo di operazione è facilmente inscrivibile in una logica postmoderna, allo stesso modo si deve leggere la sua penultima fatica.

The Others riacquista una linearità nello svolgimento degli eventi, ma contemporaneamente viene minato proprio nella sua stessa produzione o pre-produzione che dir si voglia. Se si considera infatti The Others come il remake di Suspense (The Innocents, 1961) di Jack Clayton, è fin troppo chiara la speculazione operata dal regista. Da sempre si è abituati alle molteplici (e giustificate) concessioni autoriali che comportano la rielaborazione di un testo filmico preesistente. Rivisitazioni contenutistiche e formali fanno parte del processo, ma in questo caso stupiscono le modalità. Lasciando da parte il discorso dell'adattamento dal romanzo di Henry James, Giro di vite - paradossalmente implicatovi solo per rimando - Amenàbar si dedica ad una nuova forma di sintesi. Cogliendo appieno l'atmosfera del film di Clayton, il regista l'adatta (non si potrebbe utilizzare altro termine!) alla sua epoca e - soprattutto - alla sua poetica. Il colpo di scena finale, anche se deve qualcosa al collega indiano M. Night Shyamalan, rientra nelle dinamiche messe in moto dal cileno fin dalla sua prima opera. Il gioco ammiccante tra la dimensione dei vivi e quella dei morti e, soprattutto, la totale identificazione spettatoriale con la seconda, rimanda alla lunga carrellata conclusiva di Tesis, in cui i malati sono trasformati in veri e propri zombie dalla visione del programma televisivo.

Allo steso modo, sempre per cogliere un parallelismo, sembrerebbe quasi che le figure mostruose che decoravano l'antro/abitazione di Chema abbiano preso vita scivolando nel buio della casa settecentesca di The Others. È l'oscurità il personaggio principale di questo film. Un nero che avvolge e schiaccia i personaggi. La notte è perenne; la luce (la vita o il cinema?) è scacciata da pesanti tendaggi; i pochi momenti in cui si può godere l'atmosfera del giorno, questa è contaminata da una pesante coltre di nebbia, ennesimo richiamo alle tematiche più classiche dei film horror (e Carpenter ne sa qualcosa!). È proprio il continuo tributo agli stilemi del cinema classico che crea ulteriore ambiguità nella scrittura di Amenàbar. The Others riesce a spaventare attraverso elementi talmente semplici da lasciare sbalorditi. Lo spettatore attento è in grado di conoscere cosa accadrà da lì a qualche momento, eppure - malgrado l'ovvietà insita in alcune soluzioni - non vengono assolutamente tradite la tensione e la suspense.

Nasce proprio dalla calcolata commistione tra classico e moderno la miscela esplosiva che connota le opere di questo nuovo talento. Un regista attento alle tematiche dei giorni nostri, come a quelle ancestrali del nostro passato. La paura di Grace (Nicole Kidman) e figli di fronte alla scoperta della loro nuova condizione (già precedentemente accennata) è la metafora angosciante e angosciosa del nostro tempo. Amenàbar non teme di affrontare, come già hanno fatto i suoi predecessori del cinema spagnolo, la questione religiosa riaprendo ed insistendo su argomenti che sembrano ormai desueti come il culto della religione cattolica o la condizione della donna. Infatti, le eroine dei suoi film possiedono una forza sicuramente superiore a quelle dei loro accompagnatori. In tutte e tre le sue pellicole, la donna è la figura dominante, vittima innocente delle pulsioni e delle aggressioni maschili. E non a caso è proprio una donna quella che trova la forza di porre fine alle pene di Ramon Sampedro, il paladino del libero arbitrio eletto a protagonista della sua ultima opera, Mare dentro.

Ennesima prova di forza del giovane regista, il film che ha fatto guadagnare la Coppa Volpi allo strepitoso Javier Bardém alla sessantunesima Mostra del cinema di Venezia s'inscrive perfettamente nella sua poetica. Impavido di fronte ad un argomento a dir poco spinoso e ad una messa in scena altrettanto "scomoda" (prevalentemente unica location e protagonista inevitabilmente inchiodato ad un letto), Amenàbar insiste nella investigazione delle sue macrotematiche: "credo che per me fosse logico fare questo film, perché parla degli esseri umani e della morte". Ramon Sampedro però è un personaggio che sovverte il normale atteggiamento degli "esseri umani" di fronte all'ultimo capitolo dell'esisteza. Il terrore di Angela, lo spaesamento di César e l'angoscia di Grace sono spazzati via dal positivo e agrodolce buonumore di Ramon e, usando sempre le parole di Amenàbar, "se The Others era una visione della famiglia a partire dal lato oscuro, dalla morte, Mare dentro è una visione della morte a partire dalla vita, dalla quotidianità, dal naturale, da un lato molto luminoso".

Una speranza che non sembra crollare nemmeno in una delle poche scene crepuscolari del film quando Ramon, di fronte ad un tramonto carico di morte, ipotizza la sua prossima vita da spirito, da fantasma, questa volta però quieto ed appagato. Forte della consapevolezza del nulla che lo attende, accetta il trapasso non come punto d'arrivo di un percoso esistenziale, ma come una vera e propria rinascita rispetto alla sua vita/non vita. E lo scarto rispetto alla limbica situazione di Grace e figli si concretizza proprio nella promessa fatta a Rosa (Lola Dueñas), il suo "angelo della morte", di farle visita dall'aldilà.

E questo "lato molto luminoso" viene trasformato nella diegesi in una semplice finestra (anzi due) che ben presto assume un valore altro; se da una parte Grace cercava di occludere la vista sulla realtà tirando/calando le sue tende/sipario, dall'altra Ramon non solo brama quello spiraglio di vita ma, addirittura, si libra attraverso di essa compiendo veri e propri voli onirici, visualizzazioni delle sue soffocate pulsioni. La finestra si trasforma prontamente in una esplicita metafora del cinema attraverso cui il regista è in grado di mettere in scena la sua grande finzione, anche partendo da soggetti che, sulla carta, sembrano essere legati a doppio nodo con la realtà; e ancora diventa la via di fuga per l'espressione di una forma di messa in scena, come già detto, spesso imbrigliata dal plot narrativo.

Proprio al di fuori delle claustrofobiche quattro mura della stanza di Ramon Sampedro, Amenàbar si abbandona a sequenze di grande respiro e dal forte impatto visivo. Sfruttando brillanti soluzioni di montaggio (come nel caso in cui Julia rivive, attraverso le fotografie, la vita del suo cliente) o il motion control per dar vita alle proiezioni del protagonista al di fuori del suo stato di paralitico, il regista si diverte a sottolineare le potenzialità ludiche e spettacolari del mezzo. Il volo di Ramon fino alla spiaggia ne è un chiaro esempio tanto che, per un attimo, lo spettatore viene trasformato nel fruitore di una delle tante attrazioni del mondo delle giostre, creando in questo modo un collegamento diretto tra il cinema e le sue origini nel mondo dei baracconi e delle fiere. E a sottolineare quest'aspetto, così come già era accaduto per Apri gli occhi, una voce leggera e quasi sussurrata esorta lo spettatore all'inizio del film a focalizzare la sua attenzione su quel grande schermo, su quella grande finestra, capace di illudere e far sognare il Ramon Sampedro viaggiatore immobile.

Ma la provocazione non si ferma qui. Come a voler riprendere le fila di un discorso aperto nel suo primo lungometraggio ripropone la "morte in diretta" e, in questo caso, chi ne fa le spese è proprio il suo protagonista. Il distaccato obbiettivo di una telecamera riprende gli ultimi attimi della vita di Ramon Sampedro giocando in questo modo – per l'ennesima volta – col binomio verità e finzione, non esimendosi comunque dal fornire in maniera indiretta il suo giudizio sulle qualità e potenzialità del digitale.

L'universo di Amenàbar - come si può vedere - è variegato e complesso anche se incentrato su tematiche che inevitabilmente si ripetono di pellicola in pellicola. Ma la maestria di questo regista si riscontra proprio nella sua incredibile abilità di spaziare di genere in genere, di storia in storia con grande facilità. I suoi film sono opere poliedriche che non si limitano alla mera e onanistica speculazione su quelle ossessioni che potremmo definire a questo punto autoriali, ma sono sempre tese al convolgimento emotivo dello spettatore .

 


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