Festa Internazionale del Cinema di Roma: conversazione con Alessandro Capone PDF 
Enrico Maria Artale   

ImageAlcuni giorni dopo la fine del festival ho raggiunto al telefono Alessandro Capone, già regista di Uomini sull’orlo di una crisi di nervi (1995) e molto attivo in ambito televisivo, per fargli alcune domande sul suo ultimo controverso film, L’amour caché, tratto dal libro di Danielle Girard Madre e ossa, e in concorso alla Festa del cinema di Roma. In molti si aspettavano che la grande prova dell’attrice Isabelle Huppert le avrebbe valso il riconoscimento come miglior interprete femminile, andato invece alla cinese Jang Wenli per il film Li Chun.

Ho letto che ha atteso per più di un anno per avere Isabelle Huppert. Effettivamente vedendo il film ho avuto l’impressione che fosse stato scritto per quella attrice. Come mai questa esigenza specifica? È antecedente o posteriore alla stesura della sceneggiatura?

Era dovuta alla lettura del libro. Ho letto il libro sei o sette anni fa ormai, e leggendo uno visualizza i volti dei personaggi: subito pensai ad Isabelle Huppert. È stata una suggestione immediata, ancora prima della sceneggiatura.

Nel film lei ha inserito almeno due sequenze con un carattere fortemente visionario, quella in cui la protagonista si sdoppia, e quella in cui raccoglie, con chiaro rimando cristologico, il corpo della figlia nuda. È qualcosa che ritorna spesso nel cinema attuale italiano, pensiamo ad esempio a Nuovomondo di Crialese. Nel suo caso quale esigenza l’ha spinta ad inserirle?

ImageLa prima era un’immagine esplicitamente onirica. La seconda era comunque una visione, non è specificato ma possiamo comunque intenderla come un sogno: è l’inconscio. Il film inizialmente aveva tre piani di racconto, presente, passato e inconscio, il piano della malattia. C’erano più cose girate rispetto a quest’ultimo piano narrativo, ma le abbiamo eliminate quasi tutte perché era talmente più forte lei, talmente più forte la realtà, che quasi era una forzatura inserire troppe sequenze sull’inconscio. Abbiamo fatto una scelta più radicale rimanendo su di lei. Abbiamo voluto tenere questi due viaggi nel suo inconscio perché avevano in ogni caso un senso importante: c’è lei che vede se stessa in gravidanza, con tutti i suoi dubbi, e poi la desolazione di fronte alla morte della figlia.

Scegliendo un soggetto così originale, ha prevalso in lei lo spirito di provocazione, insito in una storia come questa, o quello di conoscenza?

Io penso che provocatorio il film lo è perché va a parlare di qualcosa di cui non si tende mai a parlare. Non nasce però dal gusto di provocare, ma dall’aver incontrato un problema esplicitamente femminile, su cui io da uomo non avevo mai riflettuto. Il libro mi ci ha fatto riflettere, mi ha coinvolto molto, l’ho trovato molto violento e molto forte: una delle poche cose moderne che ha la forza di una tragedia greca, con uno spessore antico, perché si riferisce ad un problema antico che non si è mai affrontato pienamente. Il film, in questo senso, andava fatto. L’esigenza è stata dunque conoscitiva, voler scoprire e approfondire qualcosa che ancora andrebbe ampiamente approfondito. Con il rispetto che si deve avere affrontando un mondo che non è il proprio, il mondo femminile.

Nel film c’è forse una velata critica alla psichiatria, in qualche modo impotente di fronte ad una situazione che verrà sbloccata soltanto da un evento della vita, un evento tragico come la perdita della figlia?

Assolutamente. Ma non si tratta di una critica alla psichiatria o all’analisi in sé: c’è un’analista con una problematica personale di fondo che in qualche modo si è andata a scontrare con la situazione clinica, che l’ha coinvolta e che non avrebbe dovuto coinvolgerla, professionalmente. È un errore da parte sua, e ciò le rovinerà la vita privata, fino a costringerla a rimettersi del tutto in discussione. Dunque è più un problema specifico dei personaggi che una critica alla professione, anche perché alcuni risultati li ottiene, riuscendo a comunicare con la paziente.

L’evento determinante però resta tragicamente esterno alla cura…

Assolutamente, anche perché quando lei va nella seconda clinica in realtà continuerà a scrivere alla dottoressa, ma non sarà più in analisi con lei.

E infatti la situazione peggiora drasticamente perché le condizioni non sono più le stesse…

La dottoressa il suo lavoro lo faceva nel migliore dei modi; certo nessuno si aspettava che potesse suicidarsi la figlia.

Ovviamente. Non so com’era stato trattato nel libro, ma lei ha scelto di focalizzarsi sul personaggio della madre al punto che lo spettatore non si aspetta una svolta così drammatica all’esterno di questo personaggio. Era il suicidio della madre ciò che tutti si aspettavano…

Infatti anche nel  libro succede nelle ultime due pagine. Non solo: si rilegge tutta la storia di lei in una luce diversa. Perché nella prima parte si comincia a pensare che questa figlia è stata anche ingiusta nel rapportarsi alla madre, invece, con questo gesto, tutti i suoi comportamenti vengono letti in una nuova prospettiva. Io non volevo in nessun modo snaturare il libro, evitando il complesso di inferiorità per rispettarne a pieno i contenuti. E ovviamente anche la struttura.

Vorrei sapere in che modo lei si è rapportato ad una certa tradizione del cinema europeo, francese e scandinavo soprattutto; in particolare il rapporto tra le due donne può ricordare certe situazioni tipiche del cinema di Bergman, da Persona a Sussurri e grida o ancora Sinfonia d’autunno, in cui c’è questo rapporto molto difficile tra madre e figlia…

ImageIo sono cresciuto con i  cineclub dell’epoca, il Filmstudio, L’occhio e la bocca, etc. Oggi c’è il DVD, uno il film lo compra e lo vede senza problemi, allora bisognava fare una ricerca; e si vedevano film molto particolari. Così sono cresciuto con la passione di Bergman, che forse è uno dei registi che in giovinezza mi ha colpito di più. E più in generale l’ambito era quello, penso anche Dreyer, o all’espressionismo tedesco.

L’interesse per la decostruzione di certi sentimenti familiari è tipico della cinematografia scandinava, da Dreyer a Bergman, fino ad alcuni esponenti di Dogma, con esiti molto più superficiali però, almeno a mio avviso.

Gli anni Sessanta sono stati anni molto formativi, era un cinema interessante e soprattutto un cinema che andava sempre a scavare. Si assisteva sempre a qualcosa di diverso, sembrava di entrare in un mondo. Adesso andiamo a vedere dei mondi conosciuti, in questa società globalizzata in cui ovunque si può mangiare da McDonalds, si è un po’ persa la differenziazione che portava alla fruizione del film come se fosse un viaggio.

Si veniva in contatto con differenti modalità di guardare ai sentimenti. A proposito, le chiedo, perché la produzione sia stata in gran parte straniera? Quali differenze ha riscontrato?

ImageLa produzione è partita da qui e poi abbiamo messo insieme altri paesi, anche grazie a Cristaldi che si è veramente battuto per questo film. Fuori dall’Italia si parte molto dallo scritto, con grande rispetto della sceneggiatura, mentre qui si parte dal: chi ci metti nel film? In Belgio abbiamo preso un fondo del ministero della cultura, sono piccoli contributi che danno a fondo perduto, e siamo stati il primo film estero a prendere questo fondo; certo, sono dovuto andare io a Bruxelles a parlare con la commissione, che è composta di persone che fanno cinema, e a difendere la sceneggiatura; lo stesso vale per il Lussemburgo. E nessuno dei produttori è entrato mai in merito rispetto ad uno degli aspetti creativi: un grande rispetto della sceneggiatura e della regia, un amore per il cinema che qui ormai vedo poco; sembrerà strano ma le domande che all’estero ti fanno i produttori associati sono diverse da quelle che ti fanno i distributori italiani. Avendo poi concluso con un distributore indipendente possiamo dire che il film ha avuto un viaggio completamente indipendente, il che mi sembra una cosa importante.

Si sentiva che la produzione non era italiana, lo si percepiva vedendo il film. A parte il  linguaggio ovviamente, c’era la sensazione di un’impronta diversa.

Non sottovaluti la presenza di Isabelle Huppert in questo senso: un’attrice istintiva, un animale da scena come lo erano appunto gli attori di Bergman dei tempi d’oro, che non erano attori, erano personaggi. C’è stato un rapporto importante perché la domanda del regista all’attrice non era: come vuoi dire questa battuta? Ma era: che cos’è per te la morte? Che cos’è per te l’amore? Quindi si lavorava veramente sui contenuti, sul tessuto sociale, sul personaggio, facendolo vivere. Non c’era mai forma, era sempre tutto in sostanza. Quello che c’è nel film era già presente sul set, i contenuti non sono venuti a formarsi successivamente.

Come ci si trova professionalmente a muoversi tra la televisione e un cinema impegnato e indipendente? La situazione in questo senso è diversa rispetto agli altri paesi?

ImageLa televisione è una palestra: è difficilissima da fare, forse più difficile di un film, per il rispetto dei tempi, dei minutaggi, e per la quantità di materiale da girare. Fa bene, perché quando poi vai a fare un film con tempi più tranquilli, con i grandi attori, sei allenato e abituato a non porti più certe problematiche tecniche e puoi concentrarti sulla qualità: in questo senso la trovo sana. Nei paesi anglosassoni c’è la cultura di fare molta televisione e quasi tutti i registi vengono fuori da lì; da noi c’è un po’ questa divisione lobbistica: chi fa cinema non fa tv. Ma per fare solo cinema bisogna essere ricchi di famiglia. L’importante è lavorare, fare esperienza, avere degli scambi professionali.

La “situazione estera” quindi sarebbe auspicabile, voglio dire un maggiore scambio tra i settori della produzione video.

Beh, gli americani in questo momento fanno forse meglio la tv che il cinema. Hanno una televisione buonissima, molto più del loro cinema attuale.

Lo scambio può quindi aiutare ad alzare il livello della televisione stessa?

Sicuramente. Ce ne sarebbe bisogno. Lo scambio è fondamentale, ma non solo con la TV. Allo stesso tempo infatti io continuo a fare teatro, perché il teatro crea il rapporto reale con gli attori, ed è una scuola che dovremmo fare tutti: non sei mediato dai mezzi tecnici, e sei obbligato ad un lavoro con l’attore che al cinema non c’è il tempo di fare. È un lavoro a tutto tondo dove ogni cosa ha la sua fascinazione. Se anche la TV la fai con sincerità è un esperienza in più.

In questo film ha lavorato con uno dei montatori storici, uno dei più importanti del cinema italiano. Che tipo di contributo ha apportato Perpignani, e in che misura collabora lei con il montatore o con altri componenti del cast artistico, come ad esempio il direttore della fotografia?

ImagePerpignani ha una certa età ma ha l’entusiasmo di un bambino dodicenne, e un amore incredibile per il suo lavoro, la sua creatività è meravigliosa; stesso discorso per Tovoli. Erano anni che non faceva un film in Italia, perché qui i grandi vecchi non li usano più, qui si pensa che questi personaggi siano costosi, o magari lenti. Invece si tratta di collaboratori straordinari, che possono  solo portare qualità e aiuto sul piano psicologico. Un uomo che ha lavorato con Antonioni è un compagno di viaggio perfetto.

C’è stato dunque un contributo a tutto tondo?

Tutto era in armonia: con Tovoli abbiamo deciso insieme di usare tre tipi di luce e di colore per i tre piani del racconto. Anche con la scenografia ovviamente, c’è la prima clinica dei ricchi che è tutta costruita su toni grigi, la seconda ha invece dei colori pastello, un po’ sbiaditi. Gli esterni d’altra parte sono più colorati, e la figlia è spesso vestita di rosso.

Tante volte sia certa critica, magari un po’ sprovveduta, o anche certi registi eccessivamente pieni di sé, pensano al cinema d’autore come qualcosa di strettamente legato all’autore, e nient’altro. Quando invece a me sembra vero il contrario.

L’autore ha un idea precisa di dove deve andare, ma lavorare insieme ai propri tecnici vuol dire andare in quel posto facendosi aiutare dalle persone giuste. Noi all’ultimo ciak ci siamo abbracciati tutti, l’attrice ha pianto, insomma è stata una famiglia meravigliosa. Parlavamo prima di Bergman, e non dobbiamo dimenticare che i suoi attori stavano sempre con lui, facevano le prove al tavolino, lavoravano nel suo teatro.

Si è portato dietro per una vita, o quasi, anche alcuni collaboratori. È il caso di Sven Nykvist. Pensa che dopo la sua scomparsa ci siano ancora maestri, maestri in quel senso lì?

Credo proprio di no. Quindici giorni fa ho rivisto Amarcord insieme a mio figlio; ed è una cosa pazzesca. Fellini continua ad impressionarmi, ogni inquadratura è un quadro: è raffinato, è divertente. Io registi così non ne vedo più.

Senza dubbio esistono alcuni grandi registi, in posizioni molto isolate, ma la figura del maestro sembra essere scomparsa con la morte di Bergman…

ImageDirei di sì; grandi registi ce ne sono per carità: pensiamo a Coppola, che è un grande anche se magari fa pochissimi film; ma ci sono sempre meno film particolari. Se pensa a Schindler’s List, di Spielberg, quanti anni sono che non vediamo un film così? Casi isolati, non c’è più il riferimento. Noi aspettavamo ogni anno che uscisse il film di Bergman, come una sorta di appuntamento; l’appuntamento con Truffaut, o con Fellini come dicevamo, ma anche con Rosi, se penso a Le mani sulla città, con Petri, con Germi, i riferimenti erano tanti. Io ad oggi uno come Pietro Germi non lo vedo; se lo vedessi andrei a fare l’aiuto regista con lui. Si incontravano, facevano le sceneggiature in tanti, creavano un dibattito culturale. L’impegno era altissimo; se pensiamo a film come La proprietà non è più un furto, o Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, dobbiamo tenere a mente che il pubblico usciva dal cinema pensando. Questo non succede più, perché nessuno racconta più quello che accade in questo paese. I francesi si raccontano invece, o anche gli autori dei paesi più piccoli. Persino i tedeschi, che sembravano spariti, stanno ricominciando a fare del buon cinema: Le vite degli altri, ad esempio. In Italia si fanno troppe commedie; per carità io la farei ancora la commedia, però è come se dopo aver fatto un film di successo ne facciamo altri sette simili. Mancano soprattutto i produttori; autori, sceneggiatori e attori bravi ci sono, anche se questi ultimi vengono usati poco.

La dinamica classica è che ad un attore vengono affidate un numero spropositato di parti, cavalcando il successo, finchè viene messo da parte sia perché il pubblico non lo vede più in modo credibile, sia perché fisicamente non ce la fa più, sia perché i registi sono restii a lavorare con un attore eccessivamente utilizzato.

Non è certo un bel modo di andare avanti. È vero che come incassi siamo andati meglio, ma gli  autori sono isolati. Noi abbiamo avuto delle ottime critiche sul mio film, al Festival, ma non è che qualcuno mi ha cercato chiedendomi se avevo un altro progetto, cosa che vent’anni fa o anche solo quindici sarebbe successa. Sostanzialmente la crisi c’è. Poi alcuni autori, sempre gli stessi, continuano a fare i film  anche se non incassano, e allora non si capisce più neanche quali sono i parametri. La situazione in Francia a confronto è meravigliosa: grande rispetto, molti produttori, una legge che tartassa gli americani per costituire un fondo, che è dieci volte il nostro, con cui si possono fare i film. E i ragazzi a luglio, la mattina alle dieci, facevano la coda per andare al cinema, a Parigi.

Questo dipende solo dal cinema o da altri fattori?

La televisione ha abbassato molto il livello, anche se adesso forse le cose stanno cambiando. La serie fatta bene sta iniziando a pagare.

Uno dei problemi più gravi, sui cui anche il movimento dei cento autori punta molto il dito, è la distribuzione.

La distribuzione è un problema enorme, perché, essendo Rai o Medusa, alla fine è sempre lo stato; gli americani ci distribuiscono due film all’anno, non di più. Comunque l’importante le cose è farle.

E in questo senso il digitale, per la distribuzione oltre che per la produzione, può aprire scenari importanti?

Può essere una cosa in più; come ad esempio si dovrebbe arrivare all’uscita del DVD il giorno in cui il film esce dalle sale, così la pubblicità può avere ancora i suoi effetti. Ci sono tante misure da prendere per poter migliorare le cose.

Cosa pensa di questa Festa del Cinema di Roma?

Fermo restando che non sono riuscito a vedere nulla negli ultimi tempi, tanto che ho almeno trenta film da recuperare tra cinema e DVD, a me la Festa è sembrata bellissima, a parte forse la cerimonia di premiazione. Tanto pubblico, tanta partecipazione; era una manifestazione che doveva esserci, perché alla fine il cinema è qui, qui molto più che altrove, e io da romano sono felice che ci sia. Tutto quello che può aiutare il cinema è fondamentale farlo; e non era facile fare una cosa del genere: purtroppo noi italiani ci critichiamo un po’ troppo a vicenda.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.