Un uomo serio, un destino ridicolo PDF 
Simone Dotto   

Era il soffio di un Poseidone invisibile – ma parecchio incazzato – quello che in Fratello, dove sei? gonfiava le vele di Odisseo aka Ulisse Everett aka Cary Grant aka George Clooney e dei suoi poveri compagni di viaggio, sbatacchiandoli da un cantone all’altro di un’America prebellica e rurale. Erano tempi incomprensibili e feroci quelli che facevano da sfondo alla folle caccia al ladro di Non è un paese per vecchi, con la razionalità dello sceriffo Ed Tom Bell ad arrancare sempre qualche passo in ritardo. E ancora, era un destino cinico e baro che faceva scivolare via dalle mani dei personaggi di Fargo le conseguenze delle loro azioni meschine, e una serie di inspiegabili coincidenze quella che prendeva in mezzo l’incolpevole Jeffrey Drugo Lebowski, che un banale caso di omonimia fece rotolare spedito in corsia, come una delle sue palle da bowling.

Alla fine degli anni Sessanta, nella comunità Yiddish del midwest degli Stati Uniti, il Destino risponde invece al nome di Hashem, in ebraico “Dio”. E Larry Gopnik, si direbbe, ne è un figlio esemplare: professore universitario di fisica in attesa di promozione, pater familias e marito modello, fratello paziente di un malato cronico, credente-praticante e partecipe alla vita religiosa comunitaria. Un mensch, insomma, un “uomo serio” che, proprio per quella che parrebbe un’insondabile volontà divina, si ritroverà presto a vestire i panni di un novello Giobbe, vittima di una serie di terribili sgambetti che piombano dall’alto a scardinargli una per una tutte le sue piccole certezze. In rapida successione: il tradimento della moglie con un amico (insopportabile) e la conseguente richiesta di divorzio e di sfratto; le ruberie dei figli e l’aggravarsi della malattia del fratello; le minacce “espansioniste” dell’americanissimo vicino e le lusinghe erotiche da parte della disinibita dirimpettaia; lettere anonime che lo discreditano sul posto di lavoro e minacce di denuncia da parte di uno studente (e del padre) sudcoreano che proprio non ha digerito la bocciatura al suo esame. In pochi mesi Gopnik è letteralmente sopraffatto dagli eventi : “io non ho fatto niente!” è la sua lamentela più ricorrente. La ragione questa volta non gli basta, e così, da uomo di scienza, si rivolge alle autorità religiose: anziché una mano tesa, riceverà in cambio una manciata di parabole incomprensibili e qualche indolente invito alla rassegnazione. “Accetti il mistero!”, lo esorta anche l’avvocato del suo allievo, cercando di negare in questo modo il tentativo di corruzione da parte quest’ultimo.

Gli svariati metri quadrati di lavagna impiegati per illustrare il Paradosso del Gatto di Shroedinger e per dimostrare il Principio di Indeterminazione divengono chiara metafora dell’insondabilità che ormai possiede la vita del professore. La stessa metafora che veniva rievocata ne L’uomo che non c’era e che quindi richiamerebbe questo, più che le opere sopraccitate, come termine di paragone più prossimo all’interno della filmografia coeniana. Ma se “l’uomo che non c’era” Ed Crane è consapevole della sua invisibilità e, anzi, tenta di sfruttarla per sfuggire al proprio anonimo destino, il “non esserci” di Larry Gopnik è pura impotenza, impossibilità di agire su quel che pure lo colpisce in prima persona. Il mosaico che lo circonda si sgretola e gli si ricompone attorno, per poi ricominciare a traballare – proprio quando tutto sembrava essersi rimesso a posto – verso una pessimistica “dissolvenza” finale che non lascia vie di scampo.

In parallelo alle vicissitudini di Gopnik senior, seguiamo anche quelle del figliolo, apparentemente distaccato dalla sventura del genitore, in realtà intrappolato nel suo stesso vicolo cieco. Più interessato al rock dei Jefferson Airplane e alla marijuana che non al culto ebraico, il giovane Danny si avvicina al suo barmitzvah senza quasi accorgersene: al giorno del suo ingresso ufficiale nella comunità yiddish ci arriverà più per inerzia che per convinzione, a balbettare la formula rituale di fronte ai parenti, ancora stordito dall’ultimo spinello. È questo filone “secondario”, e questa sequenza in particolare, a offrire l’appiglio autobiografico ai due registi, qui al lavoro su un soggetto che è quanto di più personale abbiano mai affrontato lungo l’intera carriera. Anche Joel e Ethan, infatti, sono figli di un professore di fisica del midwest, della (contro)cultura giovanile degli anni Settanta e persino di quella religione ebraica contro la quale A Serious Man si scaglia cinicamente. Vista la lunga riflessione che i due fratelli proseguono coerentemente sul Destino e sul grande mistero dell’esistenza, una postilla sull’argomento “fede” non poteva tardare ancora. A Serious Man colma la lacuna, ma l’aspetto più interessante consiste forse nel modo in cui lo fa.

Lo fa con un distacco gelido dalla storia che racconta, esercitando la stessa distanza sia dal registro comico che da quello drammatico. Come in Melinda & Melinda di Woody Allen, la materia prima di A Serious Man può prestarsi tanto ad un tono ironico quanto ad uno più tragico: eppure, al contrario dello stesso Melinda & Melinda (che finiva per essere  entrambe le cose) la pellicola in questione non è definibile né come commedia né come tragedia. Accadeva già nella parte centrale e più consistente di Burn After Reading che la narrazione restasse miracolosamente sospesa, in un surreale e grottesco equilibrio fra i due poli. Allo stesso modo, in A Serious Man tornano i primi piani schiacciati sul muso allucinato del protagonista Michael Stuhmbarg e i soliti grandangoli sui personaggi, a metà fra Orson Welles e una strip di fumetti. C’è tutta la parata delle maschere coeniane schierata al gran completo, con tanto di autocitazioni per i fedelissimi (l’anziano Terzo Rabbino stipato nel buio del suo ufficio ricorda da vicino Herb Myerson, il veterano dell’avvocatura di Intolerable Cruelty). Tutti quanti i collaudati ingranaggi della farsa coeniana sono pronti ad entrare in azione da un momento all’altro. Eppure il meccanismo non scatta mai: ogni possibilità di sfogo drammatico è programmaticamente anestetizzata, ogni risata rimane strozzata in gola, come congelata. Il risultato, per lo spettatore, è alienante, a tratti addirittura faticoso. Persino il prologo biblico in lingua yiddish – che dovrebbe contenere chissà quale chiave di lettura per aiutare a “captare” il senso della storia – si rivela né più né meno che una parabola disorientante e sconclusionata, del tutto simile a quelle che vengono propinate al protagonista dai rabbini come antidoto ai suoi guai. Chi guarda finisce allora con il soffrire della stessa affezione di Gopnik e osserva lo scorrere delle cose con identico straniamento.

Cinici e “assenti” come il Dio che raccontano, i due registi si distanziano quanto più possibile dalla loro storia più personale e riservano allo spettatore lo stesso trattamento con cui Hashem tormenta il protagonista: lo privano di qualsiasi didascalia ed accompagnamento e lo abbandonano, solo e impotente di fronte alla grande tragicommedia della vita.

 


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