Cenere e diamanti PDF 
Michele Segala   

La vita di Andrzej Wajda è legata a doppio filo con la vita del proprio paese, di quella Polonia che nel lontano 1926 gli diede i natali, e il cui cammino nella Storia è simbolico del Novecento europeo tutto: dominazione austroungarica, occupazione tedesca, lotte partigiane, indipendenza (all’ombra della madre e dominatrice Russia), la guerra fredda vista dal di dentro, un lungo Sessantotto (di lotte studentesche ed operaie) che in una certa misura si trascina fino alla nascita di Solidarność, e quindi su su fino alla caduta del mondo a due blocchi (est contro ovest). Wajda, come pochi registi al mondo, è stato in grado di far portare sulle spalle del proprio cinema (ma senza farla “pesare”) la Storia, ponendo al centro di molte sue pellicole una Polonia intesa come luogo di pensiero e di scontro tra l’uomo e tutte le mostruosità umane del Novecento, gli imperialismi, i soprusi del potere, lo schiacciamento dell’individuo di fronte alla società, dando vita così ad un cinema di personaggi caparbi e soli, coraggiosi ed idealisti, accerchiati da eserciti di mediocri, di arraffatori, di grigi servitori della collettività.

Se si adottano come punto di vista i film di Wajda, la Polonia è al centro dell’Europa e della sua Storia. E infatti il suo punto più profondo, la ferita che fece sanguinare l’intero mondo (l’Es del Novecento europeo, se vogliamo) è l’evento che tornerà spesse volte nell’opera del maestro polacco: la Seconda Guerra Mondiale. Così sarà per I dannati di Varsavia, Paesaggio dopo la battaglia, e l’ultimo Katyn, per esempio. È infatti da questa – o per meglio dire dalla fine di questa, dato che il film inizia il giorno della resa della Germania nazista – che prende avvio Cenere e diamanti, il primo capolavoro della carriera del Wajda cineasta. Azione, luogo e tempo rispettano pressappoco le unità aristoteliche, svolgendosi il tutto nell’arco di due sole giornate. Maciek, combattente nazionalista dell’Armata dell’Interno, ormai clandestino (come la sua organizzazione) con la fine delle ostilità e l’imminente nascita della nuova Polonia comunista, ha il compito di assassinare Szczuka (il segretario comunista del partito dei lavoratori di ritorno dall’URSS), ma dopo un primo tentativo fallito è costretto a portare a termine il suo ingaggio all’Hotel Monopol, la sera stessa in cui tutti festeggiano per la tanto sospirata fine della guerra. Durante la notte (e durante la mattina che le seguirà) Maciek per la prima volta nella sua vita scopre di poter scegliere, e che scegliere significa vivere. Ma non riesce ugualmente a smettere di essere l’uomo che è sempre stato: sia lui che la vittima prescelta Szczuka sono uomini soli che hanno poco a cui spartire con la vita di compromessi che li aspetterebbe, circondati come sarebbero di doppiogiochisti, di mediocri, e di freddi calcolatori. La loro vita è (stata) fulgida, intensa, e senza mezze misure: messi all’angolo dalla Storia, vittima e carnefice, si ritrovano uniti durante il loro ultimo atto.

Cenere e diamanti si apre con un movimento di macchina dall’alto verso il basso, in un bianco e nero che ricorda la nouvelle vague francese (il film è del 1958), di lì a venire in pochissimo tempo. In ordine si vedono: il cielo, la cupola di una piccola chiesa sperduta nella campagna, e infine due uomini. Il primo, Andrzej, è semi-sdraiato a terra  ma guardingo, mentre l’altro, Maciek, giace completamente disteso sul prato primaverile, gli occhi socchiusi, con l’aria di chi non abbia alcuna preoccupazione nella vita. Se gli occhi di Andrzej – il suo superiore nella gerarchia della loro cellula – sono vigili, e rimarranno per l’intera durata del film attenti e sospettosi, quelli di Maciek faranno trasparire ben pochi sentimenti o intenzioni (gli occhi chiusi sono con ogni probabilità uno dei primi simboli disseminati in questo film: Maciek ha visto molto, e ha quindi smesso di guardare). Allo stesso modo questa prima inquadratura delinea sinteticamente il rapporto tra i due personaggi: Andrzej è la mente, l’uomo che andrà sempre avanti, cercherà di salire le gerarchie, di costruire qualcosa, mentre Maciek vive ogni istante come fosse l’ultimo, incurante, fanciullescamente beato nella sua condizione di semi-cecità (confermata dal più vistoso dei simbolismi: nel resto della pellicola Maciek terrà sempre gli occhi coperti dagli occhiali da sole, di giorno come di notte). Il prologo di Cenere e diamanti si conclude presto (non senza l’inclusione di altri simboli: l’uomo innocente che bussa invano alla porta della chiesa poco prima che Maciek lo travolga con una sventagliata di colpi di mitra facendolo precipitare contro la porta, che si apre mentre il suo corpo, bruciato dai proiettili, prende fuoco e cade davanti alla croce che si coglie appena dietro l’uscio). Viene lasciato subito spazio alla notte, che si protrarrà fino all’epilogo della vicenda. Così vediamo finalmente Maciek come ci apparirà per il resto del film: avvolto dall’oscurità, risponde divertito a chi gli rivolge parola, e si muove da ragazzo sveglio e sfacciato (sarebbe perfetto per entrare nella Factory di Andy Warhol, viene da pensare). Naturalmente con gli occhiali da sole sempre indosso. Cybulski, l’attore che lo interpreta (ed alter ego di Wajda in altri film dei suoi inizi), non a caso viene spesso definito il “James Dean polacco”, e non a torto, considerandone l’iconicità immediata, seppure questa lo renda forse simile, più che al celebre attore americano, al Belmondo di casa nouvelle vague. Wajda, che in Cybulsky troverà un amico e un tesoro, riesce così a combinare un’unione benedetta dal cielo: non a caso successivamente, parlando di Cenere e diamanti in contrapposizione a Paesaggio dopo la battaglia, avrà modo di riflettere su quanto Cybulski (a differenza di Olbrychski, l’attore feticcio di Wajda dopo la morte di Cybulski) fosse stato una scelta perfetta per la parte perché “[…] era uno di quei ragazzi e recitava un ruolo che era il suo. Sapeva tutto del personaggio.” (1)

Ma, riprendendo le fila dalla narrazione, una volta all’Hotel Monopol Andrzej lascia solo Maciek al suo compito. Il caso vuole inoltre che Szczuka sia uno degli invitati al banchetto che si terrà la sera stessa in onore della patria libera (alla presenza del sindaco, appena promosso ministro della Sanità). Maciek, nell’attesa della fine delle celebrazioni, tergiversa flirtando con Krystina, la bella barista bionda con la quale scherza annusando violette mentre la invita, poco convinto, a seguirlo più tardi nella sua camera in albergo. Lei, a sorpresa, lo accontenta e condivide con lui una notte d’amore. È così che, poco dopo, ancora a letto, il viso di Krystyna, ripreso in un primo piano rovesciato dall’alto, appare poeticamente candido mentre l’oscurità le vibra attorno come in una foto di Man Ray, e dando così una forma visibile (di accecante di bellezza) all’epifania che colpirà Maciek di lì a breve: quel viso per lui viene immediatamente a significare il disvelamento dei misteri (se non delle gioie persino) della vita. Perché solo ora realizza la possibilità di una felicità. Solo ora, di fronte a quel corpo appena colto, di fronte a quel viso luminoso in mezzo a tanta oscurità  comprende: lui che nella vita pare avere solo combattuto (e che l’oscurità la porta sempre con sé come memoria e come pegno alla nazione: dice di tenere gli occhiali oscurati sempre indosso a causa del suo “amore non corrisposto per la Patria”), lui si meraviglia della possibilità stessa di poter scegliere la felicità, di poter scegliere una vita diversa, una vita lontana dalla morte.

Presi dal trasporto i due innamorati corrono nella notte sotto la pioggia fino ad imbattersi in un'iscrizione con una poesia di Cyprian Norwik, che, il viso crucciato di Maciek ce lo dimostra, parla proprio di loro: “Ad ogni istante, come una torcia di resina, fai schizzare da te schegge di fuoco; tu non sai mentre bruci se diventi libera, o se quello che è tuo andrà perso per sempre? Non rimarrà altro che la cenere e il caos che la tempesta si porta nell’abisso? O rimarrà sotto la cenere un diamante stellato, alba di una vittoria eterna?”. La bella Krystyna, incautamente ed ingenuamente, gli chiede di getto chi sono loro: diamanti o cenere? E Maciek le risponde con un moto che è assieme trasognato e sofferto: “Tu sei sicuramente…un diamante!”, e le volta le spalle con violenza, celandole così la vergogna per la sua condizione, la condizione a cui sta lentamente tornando, adesso che l’ora dell’omicidio da compiere si avvicina: lui è cenere, polvere della Storia. Nessuna bellezza lo attenderà mai, né mai ne nascerà alcuna da lui. È così che Maciek si ritrova, nuovamente solo con il suo vitalismo ribelle, immerso nella messinscena festante del banchetto all’Hotel Monopol, dove vecchi e nuovi padroni, e vecchi e nuovi servi si danno un contegno e brindano alla Patria, mentre il complotto politico attende di essere compiuto. Ma non è la fine della guerra che si festeggia, in realtà. Il festeggiamento altro non è che macabro rituale, e la festa  una strepitante veglia: per la vecchia Polonia, per gli uomini come Maciek e Szczuka che nonostante le loro differenze si scoprono simili. Una veglia per il comunista Szczuka, commensale ancora vivo ma per poco. Una veglia insomma all’uomo che deve morire. Al suono di bottiglie stappate e risate sguaiate.

Ma la veglia è anche per Macek: anche lui deve morire. Chi gli sta attorno, tutti quei gentiluomini e gentildonne chiassosi e allegri, sono solo maschere, una sciarada di personaggi messi assieme solo per ingannare tanto Szczuka quanto Maciek, per far loro intendere di essere ancori vivi quando in realtà sono già morti, ultimi rappresentanti di una razza in via d’estinzione. La danza grottesca alle prime luci del mattino degli ultimi invitati sulle note di una Polonaise di Chopin, straziata fino allo strepito degli strumenti, è la dimostrazione che la messinscena è ormai al termine: gli ultimi personaggi si lasciano andare, le maschere che hanno indossato sinora sono adesso mezze scomposte sul viso, a rivelare il ghigno a malapena umano di chi gioisce con soddisfazione di un inganno celato controvoglia. Burattini che si credono a loro volta burattinai, si muovono meccanicamente verso un futuro che nelle loro convinzioni ha tutto da offrire loro, proprio perché loro sono certi di poter sfruttare al meglio ogni cosa, ogni persona. Così, mentre i burattini danzano grotteschi alla luce nascente del nuovo giorno che entra dalla finestra nella forma di polverosi fasci di luce bianca, fuori Maciek (ucciso Szczuka al termine della notte sotto i bagliori surreali dei fuochi d’artificio) corre impazzito verso una morte apparentemente casuale ed assurda. In uno dei suoi ultimi gesti immerge la mano nel proprio sangue e la porta al viso per poterlo annusare: non sono più le violette di Krystyna, non è più l’altra vita (quella che poteva essere) che odora, che sente, ma soltanto la sua vecchia vita: ucciso della stessa morte che lui  ha tante volte dispensato.

Note:
(1) “Positif”, n.123, 1971.

TITOLO ORIGINALE: Popiól i diament; REGIA: Andrzej Wajda; SCENEGGIATURA: Jerzy Andrzejewski, Andrzej Wajda; FOTOGRAFIA: Jerzy Wójcik; MONTAGGIO: Halina Nawrocka; MUSICA: Filip Nowak; PRODUZIONE: Polonia; ANNO: 1958; DURATA: 103 min.

 


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