L'albero PDF 
Marco Doddis   

Una tragedia familiare, una natura impietosa, un’Australia che difficilmente vediamo nelle cartoline: queste sono le radici su cui cresce il maestoso albero di Julie Bertuccelli. Sulla scorta del romanzo Our Father Who Art in a Tree di Judy Pascoe, la regista francese costruisce un’opera delicata e ricca di spunti di interesse. Nel cuore della campagna australiana, la famiglia O’Neil conduce un’esistenza serena, in rapporto simbiotico con la natura. Un giorno, il povero Tim (Aden Young) viene colpito da un infarto mortale a bordo del suo furgone. La morte piomba improvvisa, come un macigno inspiegabile, sulle teste di moglie e figli. Dawn (la bravissima Charlotte Gainsbourg), pur sconvolta, ha la responsabilità di mantenere i nervi saldi. Lo deve a se stessa e, soprattutto, ai suoi quattro bambini, ognuno dei quali reagisce a suo modo alla scomparsa del genitore. Il più grande pare volerne prendere il posto, ma non ha né l’età né la maturità per farlo; il più piccolo si chiude in un malinconico mutismo; Simone (Morgana Davis), la bambina, intraprende un percorso del tutto particolare, convincendosi che lo spirito del padre riviva all’interno del gigantesco fico che sovrasta la sua casa. La piccola non vuole rassegnarsi alla dipartita di Tim e rifiuta categoricamente l’eventualità che qualcuno possa prenderne il posto. Per questo, quando mamma Dawn trova conforto tra le braccia del bel George (Marton Csokas), lei diventa ostile e scontrosa. Si lega ancora di più al suo albero, opponendosi in ogni modo all’abbattimento. E il fico pare trarre forza da tanto affetto: si fa aggressivo, minaccia di espandere le sue radici fin dentro la casa degli O’Neil. La natura non fa sconti e la tremenda tempesta finale lo dimostra.

Imprevedibili. Le leggi dell’universo spesso rientrano in questa classificazione. Nel film della Bertuccelli aleggia di continuo questa sensazione di imponderabilità, di dramma incombente: la televisione dà notizie di calamità in arrivo (che alla fine arrivano), tutto sta sospeso sul filo di un rasoio. E l’essere umano non fa eccezione. Anche lui è parte di quella natura, la cui somma perfezione risiede nell’imperfezione aleatoria. Gli O’Neil se ne accorgono sulla propria pelle, subendo la morte del padre come un fulmine a ciel sereno. In un contesto del genere, un contesto che gli umani chiamano vita, la felicità non può essere legata a nessun fattore contingente: sarebbe troppo rischioso. La felicità è una scelta. “Devi scegliere di essere felice o triste”, rivela Simone all’amichetta Zoe, “E io ho scelto di essere felice. E sono felice”. Dispone di anticorpi straordinari, la piccola protagonista. E metterle in bocca un riflessione così pare un po’ forzato. Ma tant’è, siamo in una favola. La sua elaborazione del lutto risente del potere creativo della fantasia infantile. Ciò, beninteso, non significa che non provi una tristezza devastante (in un altro colloquio con Zoe, Simone afferma che quando la gente è davvero triste non piange). Il suo punto di vista coinvolge lo spettatore, che inevitabilmente fa il tifo per lei, pur non condannando nessuno degli altri membri della famiglia. E la famiglia, diversamente da quanto accade in altre storie del genere, rimane unita, trovando la forza di ricominciare anche lontano dalla casa in cui aveva sempre vissuto.

Così, una storia luttuosa diventa a piccoli passi un inno alla vita, a quella vita che c’è in tutte le cose del mondo. Lo sguardo della Bertuccelli, affinato in campo documentaristico, emerge in tutta la sua compiutezza. Il suo difetto è che pare un po’ troppo timido per un dramma: limita i movimenti di macchina più “emozionali”, sottovaluta certe trovate poetiche che meriterebbero maggiore enfasi (una per tutte: la linfa bianca che sgorga come sangue dall’albero bucato da un chiodo). Il suo pregio è quello di trasformare questo rifiuto del pathos in un toccante apologo sulla rinascita, spirituale e fisica. E lo spettatore, trascinato per più di un’ora e mezza con il dubbio su “dove andrà a parare il tutto”, lo scopre improvvisamente nel finale. Con una macchina che corre verso l’altrove carica di vita, con le note della bellissima To Build a Home (il pezzo dei The Cinematic Orchestra non poteva essere più azzeccato), anche lui, nella sua poltrona, si sente lentamente rinato.

TITOLO ORIGINALE: L’arbre; REGIA: Julie Bertuccelli; SCENEGGIATURA: Judy Pascoe; FOTOGRAFIA: Nigel Bluck; MONTAGGIO: François Gédigier; MUSICA: Grégoire Hetzel; PRODUZIONE: Francia/Australia; ANNO: 2010; DURATA: 105 min.

 


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