Sex and the City PDF 
Eva Maria Ricciuti   

ImagePartiamo da un assunto imprescindibile: Sex and the City, il serial, oltre che un fenomeno televisivo di dimensioni planetarie, è stato per anni un fenomeno di costume che ha descritto l’universo femminile da un nuovo e fino ad allora ignorato punto di vista, svelando che sì, anche le donne fanno sesso (e non solo romaticamente all’amore) e bevono alcoolici (e non solo bibite diet o analcolici rosa con le fragoline e gli ombrellini, ma ben più sostanziosi Cosmopolitan) e adescano gli uomini (e non si limitano a scambi di sguardi aspettando che sia il maschio a fare la prima mossa) e hanno ambizioni altre dalla famiglia (la carriera, la fama, i soldi) e sognano altro che la perfezione di una casa linda e pinta (scarpe costose, abiti griffati e jet-set) e sebbene siano alla ricerca del vero amore, quello con la A maiuscola, non disdegnano di intrattenersi e dilettarsi con storie accessorie che fanno da cuscinetto tra una relazione importante e l’altra e che servono, (orrore orrore!) a liberare e quietare i loro più primordiali istinti (proprio quegli stessi instinti che tanto invocano gli uomini!) .

Sex and the City, per la generazione delle trentenni di oggi, è stato per certi versi un modello cui ispirarsi, se non in toto almeno nello spirito, nella sostanza del racconto della vita di quattro donne moderne e sofisticate, alla conquista di una loro identità e indipendenza. Diciamo che per noi è  stato una sorta di Amici miei (e scusate se il paragone a qualcuno suonerà blasfemo) al femminile e in salsa glamour. Come dire, una sveglia per capire che non siamo più tutte Sandra Dee o Lucille Bell. Ciò detto, credo che decontestualizzare una rivoluzione di tal portata e proporla con un mezzo diverso e ben più rigido della serie TV, riproponendo il tutto a distanza di anni e perciò in un contesto ormai diverso e ben più spregiudicato, sia stato un errore. Estrapolando una sequenza del film, potremmo dire che la sostanza di questo esperimento mal riuscito potrebbe essere sintetizzata nell’immagine di una Samantha cosparsa di sushi ormai disgustosamente maleodorante, esausta e irritata per l’inaccettabile ritardo del fidanzato ventenne. In quell’immagine, che ha del patetico, oltre che del comico, io vedo una stretta similitudine con la malsana abitudine della società moderna di decontestualizzare per modernizzare, adattare e piegare realtà altre alle regole della propria. La scena cita l’antica usanza giapponese del nyotaimori, (letteralmente: presentazione del corpo femminile) che prevede l’utilizzo di una modella in veste di piatto da portata, una pratica dalla carica altamente erotica (pensate al sushi prelevato delicatamente con le bacchette e alle splendide composizioni che ricoprono le pudenda) molto in voga nella contemporanea New York. Ora, decontestualizzare tale usanza equivale a mercificare e mortificare non solo la malcapitata cui tocca tenere addosso decine di simpatiche porzioni di sushi o sashimi, ma più ancora una poesia che sposa perfettamente arte culinaria ed erotismo. Allo stesso identico modo Sex and the City, il film, ha mercificato e mortificato un prodotto brillante, elegante e valido, stiracchiando a dismisura, fin quasi a deformarli, i soliti 45 minuti di plot narrativo nei quali le battute frizzanti, il lessico disinibito, le immagini glamour e le famosissime Manolo Blanhik, si muovevano perfettamente disegnando personaggi e luoghi che ci facevano sognare e desiderare una vita diversa.

Ritrovare a distanza di anni le nostre amiche è stata una delusione cocente, perché gli anni passano per tutti, ok, è una questione naturale e sicuramente sarebbe stato improbabile ritrovare Carrie, Miranda, Charlotte e Samantha uguali a se stesse, ma scoprire che persino nella finzione quelle che ricordavamo come disinibite e disincantate cultrici del libero amore/arbitrio si sono trasformate in scoloriti ricordi di antichi splendori è triste. Come tristi sono le improbabili mise di una Carrie ormai non più trentenne e fresca come certi azzardi vorrebbero. Una fra tutte: la terribile Eiffel Bag  foderata sì di cristalli swarosky per un valore complessivo che oscilla (a seconda delle versioni riportate da riviste patinate, fashion blog e affini) attorno ai 2.700 dollari, ma sfoggiata in un devastante accoppiamento con sandali punk/schiava e cinturone borchiato su vestitino verde bottiglia e spolverino a fiori, tono su tono. Senza parole! E che dire del rosso sfacciato sfoggiato dalla bionda ormai più che cinquantenne Samantha? Davvero troppo. Perché l’alibi della fashion addicted va pure bene, ma trasformarsi in una grottesca caricatura di se stessa lascia il tempo che trova. E non è neppure la carenza di tutti quei bellissimi personaggi comprimari, tanto affascinanti quanto politically uncorrect che infastidisce, ma la pressoché assente evoluzione nei personaggi principali, tanto che si può benissimo parlare di involuzione verso il conformismo, anzi di stereotipizzazione degli archetipi. E, infatti, laddove Carrie rappresentava il prototipo della donna in gamba e in carriera che non frusta la propria femminilità ma anzi la esalta, se Miranda era l’immagine della perfetta avvocato tutta carriera e “pari opportunità”, se Samantha era la mangiauomini e Charlotte la brava ragazza, oggi le ritroviamo, nell’ordine: zitella scaricata (per l’ennesima volta) dal vero amore, frustrata madre e moglie, tardona che adesca i ventenni e brava mammina. Come a dire, uguali a se stesse ma elevate all’ennesima potenza. E nemmeno l’inserimento di un personaggio fresco e ottimista (la giovane segretaria di Carrie, romantica emissaria di Cupido) che faccia da contraltare alle quattro o l’inserimento qua e là di buffe gag funziona, perché la trama evolve tristemente verso lo scontato, il già visto, il tristemente prevedibile, chiudendosi in un finale aperto che fa presagire la serialità cinematografica.

Perché più di ogni altra cosa, più che una festa tra vecchi amici, più che un atto di amore verso i fan, più di tutto questo, Sex and the City è una colossale operazione commerciale. Per farsi un’idea, basti pensare che costato ben sessantacinque milioni di dollari, ne ha incassati oltre cento in soli cinque giorni di programmazione, senza contare il mostruoso merchandising che gli ruota attorno e il product placement del film, che conterà al suo interno più di cinquanta marchi che ne ricaveranno un poderoso indotto. Tristemente, ma forse più propriamente, la pellicola sarebbe potuta essere intitolata Sex and the Money.


TITOLO ORIGINALE: Sex and the City; REGIA: Michael Patrick King; SCENEGGIATURA: Michael Patrick King; FOTOGRAFIA: John Thomas; MONTAGGIO: Michael Berenbaum; MUSICA: Aaron Zigman; PRODUZIONE: Usa; ANNO: 2008; DURATA: 135 min.

 


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