L'eroe dei due mondi: uno sguardo sul cinema di Martin Scorsese PDF 
di Claudia Rolla Bigliani   

Non è casuale la definizione di "eroe dei due mondi" per un cineasta come Martin Scorsese, che ha fatto dell'eclettismo e della dicotomia una vera e propria arte. Scorsese è l'eroe del mondo Italiano e di quello Americano, divenuto Italoamericano. È l'eroe del cinema vecchio stile alla Howard Hughes (l'ultimo personaggio scorsesiano diviene quasi un suo diabolico alter ego) e di quello sperimentale a basso costo (con quel capolavoro ossessivo e claustrofobico che è Fuori orario). È l'antieroe degli Oscar e del business delle produzioni hollywoodiane. È "il migliore amico" di Spielberg e il suo più grande antagonista. Un po' come tifare per E.T. e la C.I.A. contemporaneamente.

La contraddizione
Martin Scorsese rappresenta per il cinema contemporaneo una contraddizione, un enigma iconografico ancora irrisolto. Come irrisolta è, per esempio, l'iconografia del suo progetto anti-catto-filosofico forse più ambizioso, ovverosia L'ultima tentazione di Cristo, nel quale si rispecchia appieno l'enigma-Scorsese. Facciamo un piccolo passo indietro all'ormai lontano 1986. Scorsese sta lavorando a Il colore dei soldi ma in realtà, diciamocelo, dopo i vari Jack la Motta, Travis Bickle, Charlie, Johnny Boy, la faccia pulita di Tom-Topgun-Cruise non convince molto (e infatti il film sarà un flop). Anche Martin se ne rende conto, ma non gliene importa molto: solo così la compagnia di produzione sarà in grado di finanziare il film che in realtà egli sta già girando nella sua mente. Un giorno seduto ad un caffè Martin lesse un libro di uno scrittore greco, Nikos Kazantzakis, dal titolo L'ultima tentazione di Cristo. Per un ex-quasi prete passato da un santuario, quello di Dio, a un altro, quello del cinema, dotato di una sacralità profana e magica, l'idea di poter concludere il discorso iniziato sin dai primi lungometraggi Who's that knocking at my door? e soprattutto Mean Streets - opere in cui la querelle personale con il cattolicesimo e la colpa era stata aperta ma non del tutto chiusa - era diventata una sorta di ossessione. Doveva portare sullo schermo quel libro.

Scorsese folgorato sulla via di Damasco
Nel 1987, finalmente, iniziano le riprese, subito interrotte per la cronica difficoltà nel reperire i finanziamenti necessari. Il fatto straordinario è che, nonostante lo stress e lo sconforto, Scorsese sia riuscito a partorire poco prima, in una produzione indipendente, un gioiello come Fuori orario. Non credo che altrove si sia mai visto precipitare un mazzo di chiavi o volare un paio di verdoni come in After Hour. Due scene queste che sintetizzano profeticamente il senso del film, ossia la totale impotenza nel dominare la realtà e il tempo, la duplice ambiguità che esiste nella città di giorno e in quella notturna e negli oggetti stessi, che da status innocuo e manipolabile (le chiavi, i soldi) divengono quasi strumenti di tortura e costrizione. Non è un caso che Paul si ritrovi alla fine imprigionato in una statua di cartapesta che mima l'angoscia de Il Grido di Munch e che la sua liberazione - ma non assoluzione - finale avvenga di giorno, l'unico tempo che egli riesce a controllare, e davanti al suo ufficio in cui da programmatore continuerà a fingere di avere il controllo sulla sua vita e su quella degli altri. Fuori orario resta un capolavoro indipendente e, dal versante più immediato e materialista, diventa il tramite effettivo, il trampolino di lancio per iniziare finalmente il progetto de L'ultima tentazione di Cristo.

Scorsese deve però scendere ancora a compromessi. Il set è pronto, ma non quello che egli avrebbe voluto, la Terra Santa, i non luoghi della venuta di Cristo, bensì il deserto marocchino tanto impersonale ma decisamente più economico. "Mr Director" ha però dalla sua protagonisti d'eccezione: William Defoe, decisamente in simbiosi con l'iconografia di Cristo; Harvey Keitel, il vecchio magnaccia Sport, e Barbara Hershey per la quale il ruolo di Maddalena era scritto sin dai tempi di Boxcar Berta (tradotto in Italia con un titolo piuttosto curioso America 1929: sterminateli tutti), quasi una promessa. Eppure il cast stellare e il fascino della storia non riescono a sfondare lo schermo a 16:9 e le emozioni di fondo rimangono incastrate, imprigionate nei miliardi di pixel che compongono le inquadrature. Anche Keitel-Giuda offre una prestazione sottotono rispetto ai suoi standard da brivido e in generale l'opera non convince. Scorsese si ritrova davanti all'opera sognata, al coronamento di quella teologia divenuta profana con la cinepresa, con la sensazione di non essere riuscito a esprimere ciò che desiderava, costretto a far fronte al disastroso risultato della pellicola ai botteghini. Neanche le meravigliose melodie di stampo africano di Peter Gabriel riescono a rimediare all'insuccesso.

Scorsese, con l'umiltà che solo un grande maestro può avere, incassa la "sconfitta" e tanto per ripagare la Universal che aveva finanziato il film, decide di sbarcare il lunario dirigendo Cape Fear - Il promontorio della paura, uno dei pochi esempi per i quali un remake risulta superiore (e di gran lunga) all'originale. Da vero amante del cinema, egli lascia che nel film suggestioni vecchie e spunti del nuovo cinema si ritrovino a operare insieme. Così da un lato abbiamo Gregory Peck e Robert Mitchum e dall'altro un modo quasi spielberghiano di fare cinema che si manifesta nelle spettacolari scene finali girate sotto una tempesta di pioggia. Martin, inoltre, grazie alla sensualità violenta di un De Niro tatuatissimo e a un erotismo "in stile Lolita" di Juliette Lewis, introduce uno schema milleriano (Sexus-Plexus-Nexus) di "liasons dangereuse" che incrementa, spostandola di continuo su due piani, la tensione tra Nick Nolte padre e avvocato e Max Cady-De Niro, ex galeotto e fascinoso seduttore. Il film meno scorsesiano di Scorsese raggiunge con stile l'obiettivo. E risulterà essere il più grande successo di pubblico dell'anno per la Universal, che incassa con charme il flop precedente.

Who's that knocking at my camera?
Alcuni registi hanno la fortuna di lavorare con attori che rispecchiano lati della loro personalità che rimarrebbero altrimenti inespressi, o peggio taciuti, nella realizzazione generale di un progetto. Questi attori sono lo specchio, l'immagine nascosta che l'occhio del filmaker fissa con voluttà: la loro stagione d'amore (poiché proprio un atto d'amore, truffautianamente inteso, è il cinema) può durare a lungo o anche per un solo film. Così è stato Jack Nicholson per Kubrick in Shining, Jean Pierre Leaud per Truffaut, che ha costruito sul ragazzino ribelle e incompreso de I 400 colpi un vero e proprio bildungsroman, attraverso le fondamentali tappe di crescita del protagonista: dalla perdita dell'innocenza al passaggio entro le serrate fila della borghesia parigina disillusa e intellettualoide. Così è stato ed è tuttora Johnny Depp per Tim Burton che ne ha fatto un vero e proprio mezzo di espressione del senso dell'arte, della diversità, della creatività, del surrealismo alla Jacques Tatì (sto parlando di film come Edward mani di forbice, Ed Wood, Il mistero di Sleepy Hollow e l'imminente La fabbrica di cioccolato). Scorsese ha avuto profonde "love stories" professionali con alcuni dei più significativi protagonisti del cinema contemporaneo: Robert de Niro, che ha fatto suo per ben otto pellicole e con il quale ha instaurato una relazione di amicizia privata oltre che professionale; Harvey Keitel, con il quale, tuttavia, non è mai riuscito a "compiere il miracolo", quel mix di sacro e profano, languido e feroce, ottenuto invece quasi magicamente da Abel Ferrara nel suo Il cattivo tenente, e che né in Who's that knocking at my door?, né in Mean Streets, era stato completamente esaurito. Non ultimo Leonardo di Caprio, il "Dorian Gray" di Hollywood, che ha voluto affondare l'immagine di Jack del colossal Titanic per vestire i panni arruffati del gangster newyorkese Amesterdam Vallon nel bellissimo Gangs of New York, e ultimamente quelli più impomatati anni Trenta del miliardario Howard Hughes, nell'ultimo contestato capolavoro del regista Italoamericano, The Aviator, per il quale anche quest'anno non è arrivata la tanto attesa statuetta.

Il caso di Toro scatenato: anatomia di un'amicizia

Spesso nelle interviste e nelle sue biografie Scorsese parla con affetto del grande artista e amico Bob (de Niro). Più volte Bob l'ha salvato dal fantasma di se stesso, impedendogli di perdersi nel tunnel della droga e dell'autodistruzione e regalandogli allo stesso tempo nuovi spunti creativi su cui ricostruire la sua parabola artistica. All'epoca di Toro scatenato Martin era nel vivo del jet set newyorkese: grande amico di Robbie Robertson, leader del gruppo The Band - insieme ad artisti del calibro di Bob Dylan e Joni Mitchell - egli frequentava ogni tipo di party facendo largo uso di droga. Si sentiva perso, svogliato, bersagliato dalle critiche dopo il fiasco ai botteghini di New York New York: come se il pubblico e la critica avessero già dimenticato i fasti di un opera fondamentale come Taxi Driver. Un giorno Bob va da lui e gli dice: "Senti Martin facciamo questo film maledizione!". E pochi giorni dopo eccoli sul set di Raging Bull a filmare la storia del pugile di strada Jack la Motta. A distanza di ormai vent'anni anche Scorsese riconosce che "quel film l'aveva voluto sicuramente più Robert di me" e più volte accenna alle difficoltà tecniche nel girare le scene sul ring, tra studi di luci e posizione (tra le migliori mai realizzate) e gli sforzi fisici sovrumani cui andava incontro per stare concentrato, o solo sveglio, durante la lavorazione. Ancora durante le riprese il regista si sente perso, spossato non riesce a vedere lo scopo o la fine del film, litiga con De Niro che quasi lo costringe dietro la macchina da presa. Ed è durante una discussione con un Jack La Motta ingrassato, logoro, che si prepara a recitare il proprio epitaffio davanti allo specchio con le parole di Marlon Brando in Fronte del porto, che Scorsese apre gli occhi ed esce dalla sua allucinazione: guardando quell'uomo disilluso e passivo egli riconosce se stesso, le sue paure, il suo andare a fondo, e trova la forza di finire il film e di tornare di nuovo ad essere il grande regista che è sempre stato. In primavera arriva l'oscar come migliore attore a De Niro. "Thank you Bob!"

La musica del diavolo
"Senza la musica sarei perso". Più volte il regista confessa la sua totale dipendenza - questa volta non deviante - dalla musica. Artista globale e uomo di profonda sinestesia, egli impara film dopo film a usare la musica in maniera ora creativa ora descrittiva. In The Big Shave, uno dei suoi primissimi cortometraggi, fitto di citazioni hitchcockiane, un giovanotto si rade a sangue (da qui il titolo La rasatona!) sulle note plastiche e morbide della Bunny Berigan Band impegnata in I can't get started: testo profetico per il manifesto contro la "sporca guerra" del Vietnam. In una scena di Mean Streets, che anticipa in un certo senso il videoclip attuale, uno stralunato Charlie-Keitel smaltisce la sbornia sotto le luci stroboscopiche mentre il vecchio jukebox suona, frenetico, Rubber Bisquits. È divertente notare, sempre in Mean Streets, come la canzone che apre il film, Be my Baby, sia la stessa che tornerà alla ribalta negli anni Novanta grazie a un film come Dirty Dancing.

Per Taxi Driver la scelta della musica diviene un fatto concettuale e psicologico risolto grazie al genio di Bernard Hermann, che proprio per Scorsese comporrà la sua ultima melodia, il suo canto del cigno. La difficoltà risiedeva proprio nel personaggio di Travis Bickle, ex marine nella guerra del Vietnam (occhio a The Big Shave) maniaco dell'ordine e della pulizia (un'intuizione verso l'ultimo The Aviator?), ma soprattutto un disadattato, un outsider, un uomo che ha perso il senso del tempo (non riesce a dormire) e soprattutto il suo ruolo sociale, al punto da crearsi una nuova maschera (il salvatore, il coraggioso) che tuttavia non servirà a farlo sentire parte della vita. Travis Bickle ha perso ogni contatto, ogni fede, non guarda la televisione, non legge i giornali, non ascolta la musica, è isolato. Ed è proprio per questo che all'inizio Hermann esitò nell'accettare di comporre la musica per il film. Di fatto il film non possiede uno score, una colonna sonora, ma solo questa traccia solitaria e languida di sax che accompagna nella notte il protagonista esplorandone la solitudine.

In Goodfellas - tra i migliori gangster movie mai realizzati insieme al Padrino-Parte II -, sulle note di Atlantis di Donovan, Billy Batts viene ucciso, e sicuramente Tarantino se ne ricorderà nel dirigere il cattivissimo Michael Madsen ne Le Iene. Successivamente Scorsese si avvale di collaborazioni eterogenee: chiama Peter Gabriel a diffondere impressioni di deserto e di sole su L'ultima tentazione di Cristo; poi è la volta di Elmer Bernstein che prima rivisita ancora Hermann in Cape Fear, dopodichè libera la sua ispirazione ne L'età dell'innocenza (grande omaggio al cinema inglese, a dispetto della location newyorkese), Al di là della vita e soprattutto in Casinò. Per Kundun le orchestrazioni di Philip Glass accompagnano il senso metafisico della ricerca della verità del Dalai Lama e la sua lotta contro le atrocità commesse dal governo cinese in Tibet. Infine sia per Gangs of New York sia per The Aviator Scorsese continua a lavorare insieme a un altro grande compositore per il cinema, Howard Shore: languido nel primo, spumeggiante nel secondo.

Un capitolo a parte è da dedicare alle due opere propriamente musicali di Martin (se si escludono i videoclip di Bad per Michael Jackson e quelli firmati per le musiche di Robbie Robertson), ovvero The Last Waltz e The Blues: a musical journey. The Last Waltz è la videocronaca del concerto che ha visto coinvolte alcune tra le personalità più entusiasmanti della scena rock-country-blues americana: Neil Diamone, lo stesso Robbie Robertson, Bob Dylan, Neil Young, Joni Mitchell, Eric Clapton, Van Morrison e l'anima del beat Lawrence Ferlinghetti. Tutti colti nel pieno del periodo "Peace, Love and Rock&Roll". Per The Blues, invece, Martin si è spinto molto più in là di una "semplice" registrazione dei fatti. Il blues con cui egli è cresciuto e ha iniziato a capire e amare l'America, fondando su di esso le sue nuove radici italoamericane, rappresenta la storia stessa del Paese, con le sue contraddizioni, il suo amore per la terra, le sue radici africane per tanti anni soffocate da fantasmi bianchi. Il blues è una scelta di vita, è un fuoco che non si lascia estinguere, è il sogno che unisce il Wasp e l'afroamericano, un "viaggio dal Mali al Mississippi" (Feel like going home in inglese), dal titolo del capitolo diretto dallo stesso Scorsese. Gli altri amici coinvolti in questo vero e proprio viaggio alla scoperta delle radici americane hanno i nomi di Clint Eastwood, Wim Wenders, Mike Figgis, Charles Burnett, Marc Levin e Richard Pearce. Il risultato è davvero straordinario.

Chi non legge non piglia pesci
Insieme ai vecchi film (si vedano A personal Journey through the American movies e Il mio viaggio in Italia) i libri costituiscono per Martin una continua fonte di ispirazione. La maggior parte delle sue sceneggiature hanno alle spalle romanzi famosi, anche se pellicole come Taxi Driver, Mean Streets, New York New York, Alice non abita più qui, Re per una notte e lo straordinario After Hour, si avvalgono dell'ingegno e della creatività di Paul Schrader, Hans Zimmermann, Joseph Minion, Richard Price, oltre che dello stesso Scorsese.

Dopo L'ultima tentazione di Cristo, sicuramente la collaborazione più proficua è stata quella che ha visto insieme lo scrittore/sceneggiatore Nicholas Pileggi e il regista. Durante le riprese de Il colore dei soldi nel 1986, in una delle pause dal set, Martin si appassiona alla lettura di un romanzo che parla della mafia italoamericana. Non è il solito schema narrativo che ha ispirato al cinema capolavori come Scarface di Howard Hawks: Il delitto paga bene, di Nick Pileggi, analizza gli eventi dall'interno, svelando i meccanismi dell'assassinio e della corruzione fino ad arrivare all'atto ultimo di necessaria viltà, il tradimento. Scorsese rimane affascinato da quella lettura e decide di portarla sullo schermo: nasce così Quei bravi ragazzi. Michael Powell, storico regista inglese, quando ebbe la notizia, disse a Martin: "Perché un film sui gangster? L'hai già fatto un film sui gangster!" Già, ma Mean Streets era soprattutto una storia sull'incoscienza della giovinezza più che sull'organizzazione mafiosa. Inoltre il passato di strada di Scorsese e le sue origini italoamericane avevano bisogno di essere esorcizzate, di essere interpretate, e il libro di Pileggi era riuscito a cogliere tutto questo. Martin diede forma a questi fantasmi regalandoci il bellissimo Goodfellas. Su tutti un silenzioso, definitivo De Niro: ne era passato del tempo da Re per una notte e Bob aveva girato il capolavoro di Sergio Leone C'era una volta in America. Questa volta non si trattava di Travis Bickle né di Jack La Motta. Questa volta Martin ritrovava l'amico di sempre in una fase più matura della sua crescita artistica: per lui il ruolo di James Conway un po' padre un po' padrino è perfetto. E fa' la differenza.

Il regista ritrova Pileggi nel 1996 all'epoca di Casinò, che insieme a Goodfellas, Mean streets e il recente Gangs of New York costituisce una sorta di tetralogia. In Casinò ritrova anche De Niro, di nuovo pronto a mettersi in gioco. E soprattutto una splendida Sharon Stone dai nervi fragili e dal passato torbido (memorabile la scena in cui il grande Joe Pesci consola la pupa del boss). Il progetto per Gangs of New York ha radici profonde e il libro omonimo di Herbert Asbury arriva giusto in tempo per raccogliere il sogno di Martin: un film che raccontasse la nascita dell'America, il capitolo numero uno, anche se non cronologicamente. "Non sarei mai arrivato a fare il film senza aver girato prima pellicole come Quei bravi ragazzi e Mean Streets" confessa il regista. Gangs of New York arriva in un momento cruciale per il cinema e per la società: la ferita dell'11 settembre è ancora aperta e Martin offre alla tragedia il suo piccolo contributo sulle note di Bono, The Hands that built America, mentre davanti alla tomba del padre e del Macellaio il giovane Amsterdam-Di Caprio, insieme a Jenny-Diaz, come Adamo ed Eva, si apprestano a ricominciare una nuova vita. La canzone continua, si perde, mentre l'erba del cimitero cresce a ricoprire le pietre e il paesaggio di Manhattan prende forma, per arrivare sino ai giorni nostri con i suoi grattacieli scintillanti. Tutti, tranne due.

Amici e collaboratori

Oltre al già citato De Niro e a Pileggi, Scorsese ha la fortuna di incontrare professionisti di altissimo livello, tra cui l'italiano Dante Ferretti che insieme alla moglie ha recentemente e meritatamente ricevuto la statuetta per le scenografie di The Aviator (favolosa la ricostruzione del Coconut Club), arrivata dopo anni di attesa. Scorsese ha cercato Dante sin da L'ultima tentazione di Cristo, ma comuni impegni di lavoro avevano impedito la collaborazione. Finalmente avviene l'incontro all'epoca di L'età dell'innocenza e da allora il sodalizio tra i due non è mai finito. Seguono film come Casinò, Kundun, Al di là della vita e il favoloso Gangs of New York, che ha visto Ferretti impegnato a ricostruire i Five Points a Cinecittà e che ha subíto agli Oscar il fascino delle ambientazioni tolkeniane de Il Signore degli anelli. E da ultimo The Aviator. Un posto speciale nella vita di Scorsese ha Thelma Schoonmaker, addetta al montaggio e da anni compagna fedele nella vita del regista. Thelma riesce a capire a fondo i desideri di Martin e ricostruisce il puzzle delle immagini in maniera autentica e senza alcun filtro che non sia l'ispirazione del marito. Una coppia davvero unita che ricorda con nostalgia, per la profonda intesa personale, quella formata un tempo dal grandissimo John Cassavetes e da Gena Rowlands.

Go Martin, Go!
Ci sarebbero ancora molte cose da dire su Scorsese. Il suo amore per il cinema italiano e per il Neorealismo, per Hitchcok, Cassavetes o per Ida Lupino, per Vidor e Jacques Tourneur, Griffith e Welles. Le scelte registiche, i tagli alle scene, i film che lo hanno ispirato, scioccato, i suoi film. Forse quello che si può dire di Scorsese è che un regista onesto e profondamente innamorato del suo mestiere, un uomo che ama raccontare storie (che altro è il cinema se non un meraviglioso raccontarsi di storie?) e che su questa sua passione costruisce sempre con entusiasmo sogni per sé e per gli altri. E allora go Martin, go!

 


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