TFF 29/Utopia a Le Havre: Aki Kaurismäki e la fiaba dell’immigrazione PDF 
Umberto Ledda   

Aki Kaurismäki (bevendo birra, il giorno dopo la cerimonia d’apertura del Torino Film Festival, dove dovevano premiarlo ma a cui lui non si è presentato perché non gli andava di essere premiato da Penelope Cruz): “Personalmente penso che ci siano attori ed attori e che si può essere un’attrice e una mannequin, non tutte e due”. Un attore italiano importante che non c’entra nulla con Kaurismäki: “Vorrei ricordare al signor Kaurismäki che Penelope Cruz è troppo bassa per essere una brava mannequin ma abbastanza alta per essere una grande attrice. Vorrei anche ricordargli che è tipico delle migliori mannequin restare in albergo ubriache e non venire a ritirare un premio”

Kaurismäki è un maledetto alcolizzato
Una cosa che non bisognerebbe mai fare è pensare troppo al personaggio che un artista si impone di mantenere in pubblico. È un vezzo, una maschera, una difesa o una coda di pavone, quasi mai c’entra con le opere e non aiuta mai a capirle, anzi, spesso indispone quel tanto che poi uno nemmeno se le gode più, le opere. Tipo Lars Von Trier, che ha costruito tutta una raffinata impalcatura di sovrastrutture e meta provocazioni che costantemente minacciano di crollare addosso ai suoi film; o tipo Lynch, che se la tira da pazzoide e carca di fare in modo che ogni sua frase o atteggiamento siano in contrasto con quello precedente. La maschera dei registi, quasi sempre, è un orpello di marketing per ammantare le opere di una complessità che non necessariamente posseggono, la solita vecchia tecnica dell’artista sregolato che chissà cos’ha in testa e chissà quante ne ha passate, che funziona da un paio di secoli almeno. Aki Kaurismäki, a prima vista, è un altro che corre il rischio che quando la gente sente il suo nome pensi alla sua faccia e non ai suoi film. Un po’ se l’è cercata: rimane comunque un uomo che ha dichiarato ufficialmente di non ricordarsi la metà delle riprese che ha fatto, perché era troppo ubriaco. E che si getta spesso in curiose diatribe etiliche dove molla giù provocazioni vagamente casuali, così, per il gusto di veder la faccia imbarazzata dell’intervistatore e per godersi lo spiazzamento del pubblico. Uno che si presenta ubriaco alle premiere apposta, e più è trasandato, meglio è. sembra la vecchia e collaudata maschera dell’outsider impresentabile che si pone come cartina tornasole delle ipocrisie della società: “voi che siete così presentabili e ragionevoli e sostenibili, siete forse meglio?”. Una maschera così abusata che non ci crede più nessuno. Per Kaurismäki il discorso è leggermente diverso, per fortuna. C’è in lui del compiacimento, certo: la sua dichiarazione di aver iniziato a far film così, un po’ a caso, semplicemente come stratagemma per comprarsi da bere dopo aver capito di non essere in grado di fare un lavoro onesto, è troppo bukowskiana per non essere consapevolmente ricercata, ed è pure sostanzialmente falsa, visto che il buon Kaurismäki nel cinema ci ha sempre creduto, è evidente, anche se non lo ammetterà mai.

Compiacimento quindi, ma non egocentrismo e vanità: la maschera di sbandato misantropo e antisistema, a differenza di molti altri artisti, gli serve non tanto per cementare un piedistallo, ma per distruggerlo. In fondo è solo cinema, una cosa fra le tante, c’è di meglio. E il regista è solo uno che mette insieme delle storie, ed è inutile costruirci su troppi castelli in aria. Nello spirito attuale dei tempi, dove tutto è grandioso e tutto è importante, a patto di essere presentabile e ben confezionato, la maschera repulsiva di Kaurismäki finisce paradossalmente per convogliare qualcosa di utile, come un tentativo di verità. Oltre alla questione della coerenza: il buon bevitore finlandese, quando lo hanno proposto per l’Oscar come migliore film straniero, ha fatto ritirare la candidatura, ché la possibilità di esser riveriti dal sistema ce l’avesse qualcuno a cui importava qualcosa. E poi ci sono i film. Uno si immagina che con l’immagine sociale ripugnante di Kaurismäki i film siano cinici, nichilisti, disperati, pieni di strali rancorosi a questo o quel sistema. E lo sono pure, almeno a leggere le sinossi: diseredati, barboni, eserciti della salvezza, musicisti senza un soldo, licenziamenti e galera (ingiusta). Ma poi basta vedere i film e tutto verrebbe da dire, ma non che l’uomo che scrive queste storie sia un cinico. Misantropo, antimoderno, beffardo e antisistema, forse, ma non cinico. Come se Kaurismäki, anche mettendosi d’impegno, non ci riuscisse proprio a essere uno stronzo, come se alla fine l’umanità saltasse sempre fuori, nonostante le maschere e i sarcasmi.

Il mondo è un posto di merda
Il cinema di Aki Kaurismäki è relativamente semplice. Basato psicologicamente sull’inattaccabile anarchismo sornione del suo autore, racconta storie di gente che si arrabatta in un mondo che sembra avere molto senso dell’umorismo, ma tende a scherzare sempre con le stesse persone. Uomini soli ed emarginati, netturbini, lustrascarpe, saldatori e utopisti, in un ambiente fatto di paesaggi postindustriali, sfortuna come se piovesse e un sacco di silenzio. Più o meno, l’impalcatura su cui si regge la sua poetica è questa, con le necessarie semplificazioni:

a)    La società è un gran brutto posto, secondo i canoni del realismo sociale più cupo;
b)    Fuori dalla società, la gente è buona e si aiuta a vicenda, secondo i canoni surreali dell’utopismo più ottimista;
c)    Il mondo gira del tutto a caso ed è indubbiamente una merda, ma almeno c’è il rock ‘n’ roll.

L’epopea scalcinata di un sottomondo emarginato da una società inumana che pensa solo al suo mantenimento e non bada ai suoi sudditi, i quali girano e rigirano e ogni tanto incontrano la fortuna o un gesto di umanità (mai dall’alto, sempre dal basso), alle volte no.  Un cinema apparentemente politico e sociale, ma che alla fin fine non lo è più di tanto. Kaurismäki fa analisi sociale solo per quel minimo necessario a costruire l’impalcatura per le sue storie, ma non pretende che un cineasta possa comprendere e istruire il suo pubblico su dinamiche che solitamente gli sfuggono al di là di una generica presa di posizione. Kaurismäki semplicemente sceglie la classe dei diseredati, disperati, bevitori, disoccupati per sfiga o per scelta, perché gli piacciono più degli altri. Poi, semplicemente, racconta le loro storie. Con ironia (impalpabile, ma onnipresente), che di solito tende a mancare nei progetti esplicitamente politici, a cui la programmaticità toglie la possibilità del sorriso, che di per sé è un elemento ambiguo e mal si accorda alle tesi e alle prese di posizione. I suoi film non sono più politici di una qualsiasi pellicola che racconti l’upper class borghese; l’unico elemento politico, appunto, è aver deciso di non raccontare le classi alte, perché meno interessanti. Per il resto, Kaurismäki, non è un regista della recriminazione e del pianto, è un regista della dignità: la sfiga non si abbatte sui protagonisti come una tempesta inevitabile e sadica; è un elemento sì inevitabile ma sempre logico, consequenziale, è il prezzo da pagare per chi non fa parte del regno dei coltelli dalla parte del manico, e tutto sommato trova che sia giusto non farne parte. E da qui viene la speranza che aleggia in quasi tutti i suoi film; dal pensiero che in fondo sia più giusto, nonostante tutto, stare nelle zone basse della società, che puzzano di più di quelle alte, certo, ma dove gli uomini sono ancora uomini e non rappresentazioni astratte e alienate che vivono in funzione del mantenimento della struttura sociale. Il cinema di Kaurismäki vive spesso di un sottostrato di utopismo surreale, ai suoi personaggi è data la possibilità di qualcosa di meglio, per solidarietà altrui (il salvataggio finale del protagonista de L’uomo senza passato, la coesione sottoproletaria di Miracolo a Le Havre) o per fortuna (il sicario che si ammazza di Ho affittato un killer, il locale pieno di Nuvole in viaggio), o semplicemente per il piacere di una cosa inutile, come la musica, che è sempre gratis e quindi rimane a portata di tutti (Leningrad cowboys go America, L’uomo senza passato). Una deriva utopica, la speranza e la fede che almeno nelle storie non vere del cinema il mondo possa mostrare ancora, a disprezzo della verosimiglianza, un po’ di buon senso.

Kaurismäki è un tipo coerente. Formalmente, il suo cinema non è pauperista, è povero. Nel senso che non si compiace di pochi mezzi, semplicemente non ne cerca troppi, fa economia, si fa bastare le cose e non ne spreca nessuna. I movimenti di macchina sono pochi, senza una ricerca tecnica di cui Kaurismäki non sarebbe forse in grado e di cui sicuramente non gliene frega nulla. L’unica concessione all’estetica è il trattamento pittorico dell’inquadratura (e infatti le inquadrature dei suoi film sono tra le cose più belle che si incontrino nel cinema degli ultimi anni). Le sceneggiature sono lineari, nessun tecnicismo all’americana e nessuna indulgenza alla retorica - si parla poco, è raro vedere qualcuno che sorride o piange -, niente sottotrame multiple incrociate e turning point multipli a creare movimenti di trama sinfonici e inverosimili. Storie, semplicemente, che non se la tirano, né in un senso né nell’altro, e che non indulgono nemmeno nelle boutade etiliche a cui il loro autore si abbandona ogni tanto.

Miracolo in un posto molto brutto
Il cinema di Kaurismäki si muove lentamente, senza scossoni, una storia dopo l’altra, variando spesso solo per il gradiente di fortuna e speranza concesso ai protagonisti dopo tanto sbandare, e Miracolo a Le Havre non fa eccezione. L’ambientazione è sottoproletaria e simbolica, un porto alla periferia di una società dorata e rutilante, luogo per eccellenza dei rifiutati e dei vagabondi, e luogo che porta le cicatrici del progresso e del benessere altrui, simile in tutto e per tutto ad altri luoghi periferici di altri suoi film. Il mestiere del protagonista, vagamente ironico come lo era già quello della Fiammiferaia: il lustrascarpe, un lavoro fuori tempo massimo, un lavoro che non esiste più e che sembra venir fuori da un film di Charlie Chaplin. Lo stesso Marcel Marx, ex scrittore in esilio dalla società, fuori dal mondo, personaggio placido e alieno come molti protagonisti di Kaurismäki. Simili alle altre pellicole sono il ritmo, placido come il protagonista, e la messinscena minimale e stilizzata, così come la carrellata dei personaggi e degli ambienti. Quello che è cambiato, di molto, è il fatto che l’elemento fiabesco, e con lui la speranza che aleggia nella pellicola, sono aumentati di parecchio, non solo rispetto al precedente Le luci della sera, che era cupissimo e finiva malissimo, fra l’altro in una maniera terribilmente verosimile, ma anche rispetto a pellicole relativamente ottimiste come L’uomo senza passato. Mentre l’elemento utopico era sempre stato uno degli elementi dei film di Kaurismäki, mai quello preponderante, qui prende il largo (pur senza lesinare nella rappresentazione delle porcherie della società), forse proprio perché dall’altra parte c’è la scelta di concentrarsi su un tema preciso e strettamente legato all’attualità, uno di quei temi da telegiornale che si trovano ad essere esposti a imbarazzanti quantità di retorica: l’immigrazione.

È la prima volta che Kaurismäki sceglie un tema così esposto, prima sceglieva sì argomenti di estrazione sociale, certo, ma della vita dei disperati, a meno che non ammazzino qualcuno di più ricco, a nessuno frega nulla, nel mondo dei telegiornali. Forse proprio per questo ha deciso di trattarlo al contrario: avvicinandosi alla cronaca ha scelto la fiaba, e l’utopia più sfrenata. L’ottimismo di Miracolo a Le Havre è spudorato, la distinzione fra buoni e cattivi è netta e senza le preponderanti zone grigie della realtà, oltre al fatto che sono decisamente più i buoni dei cattivi. La storia della comunità sgangherata e solidale che aiuta e protegge il ragazzo del Gabon da una polizia ottusa (ma nemmeno così tanto) e dalla stupidità maligna dei delatori è distante da qualsiasi forma di realismo e da qualsiasi verosimiglianza sociologica, ma lo è in una maniera così esplicita, così sottolineata (anche da tutta una serie di elementi surreali, l’assenza dei giovani in una comunità che sembra escludere il concetto stesso di modernità, con il risultato che il film è ambientato ai giorni nostri ma sembra di vedere una pellicola di cinquant’anni fa; il poliziotto nerovestito che sembra preso di peso da un fumetto noir), che invece del buonismo sembra esprimere una sorta di compensazione, di bilanciamento della realtà, andando a mostrare un mondo come dovrebbe essere se non fosse così terribilmente sballato. Miracolo a Le Havre è il sogno perduto del cristianesimo originale, quello del discorso della montagna che nel film viene citato, il sogno di un mondo in cui davvero gli umili possano essere beati e illuminati, e che nella realtà non si è davvero mai visto, e che ha quindi bisogno delle strutture della fiaba. Un film quasi religioso, ma di una religiosità laicissima, l’unica disponibile a un ateo irriducibile come Kaurismäki, in cui, davvero, gli ultimi sono baciati dalla grazia e dal buon senso; e non importa tanto che siano impresentabili, grotteschi e stazzonati, e magari bevano un po’ troppo e spesso non siano nemmeno del tutto ligi alla legge: una specie di ricompensa utopica, un monito a cosa dovrebbe accadere sempre e non accade mai.

 


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