My Own Private Idaho: la frattura generazionale e l'impossibilità del ritorno PDF 
Piervittorio Vitori   

ImageAll’epoca della sua uscita i critici ebbero gioco piuttosto facile nel definire My Own Private Idaho - rifuggire dall’orribile titolo italiano, Belli e dannati - un gay movie. È vero, il protagonista è un omosessuale e, tra le scene più intense del film, c’è quella dei suoi “colleghi” prostituti che raccontano le loro prime volte (ripresi con uno stile vicino al documentario che, se contrapposto ai barocchismi che segnano le scene successive, la dice lunga sulle possibilità di Van Sant). Il torto che si fa al film volendo difendere questa etichetta è però evidente: si può discutere sul posto che avrebbe l’omosessualità nell’ipotetica lista dei 40 concetti che il regista sceglierebbe per definirsi (lo ha fatto Liberti [1]), ma ad uno sguardo appena attento appare chiaro come questo tratto sia solo uno tra quanti compongono la marginalità di Mike - e solo la sua, comunque, poiché Scott non è gay né marginale quanto l’amico -, e forse nemmeno quello più importante. Da dove iniziare, allora, per rendere conto della complessità di una pellicola che appare estremamente articolata già nella figura del protagonista, orfano, hustler, narcolettico e condannato al vagabondaggio?

Dovendo sintetizzare i temi portanti della diegesi, se ne possono individuare tre in grado di accomunare i due personaggi: tradimento, abbandono, ritorno. La diversità sostanziale tra Mike e Scott si dà poiché il primo è oggetto delle prime due funzioni e soggetto non realizzato della terza, mentre il secondo si rivela come soggetto realizzato in tutti e tre i casi. Lontano dalla sorte di vulnerabilità cui è legato l’amico, Scott è predestinato dall’eredità paterna, come sottolineato anche dal debito letterario più evidente tra quanti stanno alle spalle dell’operazione: quell’Enrico IV di Shakespeare da cui Van Sant mutua il rapporto tra il principe Hal (Scott, appunto) ed il “cattivo maestro” Falstaff (Bob). Tenendo a mente come mediazione il Falstaff di Welles - uno degli spunti iniziali poi confluiti in My Own Private Idaho -, il regista non solo ripropone fedelmente alcune linee di dialogo dall’opera del Bardo, ma si permette anche il vezzo, giusto per chiarire il concetto, di far bere a Scott una lattina di birra Falstaff. La sequenza del fatiscente ritrovo degli hustlers a Portland, inclusa la rapina notturna, rappresenta uno stacco rispetto all’inizio del film, quasi una digressione destinata a chiudersi con l’inizio del viaggio dei due protagonisti sulle tracce della madre di Mike. Lo è anche in senso narrativo, poiché si tratta dell’unica parte del film che appartiene più a Scott che al suo sodale. Il tutto, nonostante le critiche circa la scarsa coesione strutturale del film (di cui probabilmente al regista importava ben poco, essendo fisiologicamente legata ad un’ipertrofia che pare perseguita in maniera consapevole), trova comunque una sua giustificazione: la stessa discesa nei bassifondi della prostituzione e della droga rappresenta infatti solo una parentesi, una digressione esistenziale nel percorso di Scott. Se dunque il suo è un percorso comunque lineare e provvisto di una meta abbastanza chiara, quello di Mike è più indefinito, pur nella sua circolarità. La pellicola trova all’inizio e lascia alla fine il protagonista da solo sulla stessa strada, una strada che è però più prossima ad uno stato mentale che ad un dato concreto (e lo stesso Mike la erge infatti a metafora di una traiettoria ad anello, priva di soluzione di continuità). Ad accentuare poi questa labilità interpretativa concorre un finale aperto: chi è l’automobilista che carica nella sua vettura il ragazzo? È un “buon samaritano” o l’ennesima tappa di Mike sulla via della perdizione? La didascalia conclusiva, quel “Have a nice day” che riprende la battuta con cui Scott si congeda definitivamente da Bob e dal mondo di cui fa parte anche Mike, sembra far propendere per la seconda ipotesi, sottolineando in maniera ancora più marcata (ed ironica) il divergere delle due strade.

ImageIl vagheggiato ritorno a casa del protagonista è contrassegnato da una serie di richiami simbolici: il sogno dei pesci che risalgono la corrente, legato non tanto all’idea di libertà - come sostiene Lap (2) - quanto alla figura materna (lo dimostra il fatto che i pesci rispuntino fuori nella camera della matura cliente e in quella di Hans, quando questi fa vedere ai ragazzi la foto di sua madre); il coniglio che Mike vede all’inizio lungo il ciglio della strada, tratto dalla seconda importante fonte letteraria del film, Alice nel paese delle meraviglie; i ritratti di famiglia di cui si circonda il fratello/padre del ragazzo, anch’egli evidentemente alla vana ricerca di legami famigliari normali. Tra tutte queste immagini Mike si muove come un viaggiatore dipendente ed incosciente, con una scarsa autonomia affettiva riflessa anche dalle modalità dei suoi spostamenti: arriva a Portland da Seattle in stato di incoscienza; scappa davanti al poliziotto che invece aiuterà Scott a rimettere in sesto la moto; delega l’amico il compito di fare i biglietti per Roma e, lì, di trovare un taxi. Ma il dato fondamentale, in questo senso, è costituito sicuramente dalla sua narcolessia, sorta di corto circuito che scatta tra realtà e fantasia: due dimensioni di cui la strada nell’Idaho costituisce, come detto, una sorta di frontiera mobile. All’interno di una prova registica di grande personalità - si vedano i riferimenti scenografici allo stile di Van Gogh e Vermeer (3) - Van Sant è abilissimo a giocare queste carte sul volto del protagonista, giustificando la lettura fornita da Marianna Martin quando sostiene che qualsiasi discussione sul film non può prescindere da alcune considerazioni sui due interpreti, River Phoenix e Keanu Reeves (4). Secondo lei, l’irrequietezza esistenziale del primo (riflessa anche nei suoi personaggi) trova un necessario archetipo nel carattere di James Dean, a cui naturalmente lo accomuna anche la tragica e prematura scomparsa. Dall’altra parte, l’immagine e la carriera di Reeves sono prive di riferimenti illustri, e questo, unito alla sua dubbia intensità interpretativa, ne fa un’ideale schermo bianco su cui il regista può proiettare qualsiasi cosa, facendo vestire all’attore, di volta in volta, i panni del prostituto e quelli del delfino dell’alta società. Questa adattabilità, la capacità di cambiare ruolo a suo piacimento, è la causa dell’invulnerabilità accennata all’inizio: Reeves/Scott è apparenza, laddove Phoenix/Mike è sostanza, ciò che lo rende vulnerabile. Van Sant alterna allora campi larghi a close-up sul suo viso, e anche in sede di montaggio regala pezzi di bravura: ne è un esempio il passaggio iniziale tra l’Idaho e Seattle, con la falsa continuità fornita dai tremiti facciali del protagonista, prima vittima di una crisi di narcolessia, poi sopraffatto dall’orgasmo.

ImagePare stabilirsi quindi anche un’equazione tra sessualità e sofferenza, e sarebbe l’ulteriore prova di una rete affettivo-relazionale che in Mike è decisamente compromessa. Non sarà un caso, allora, che gli unici due rapporti che vediamo consumarsi - il triangolo tra i due ragazzi ed Hans e l’amplesso tra Scott e Carmela - siano proposti con rapide sequenza di inquadrature che “mimano” degli still frames. Dall’ottica di Mike (in entrambi i casi il punto di vista è il suo) l’atto sessuale è qualcosa di freddo e distante: nel primo caso perché non c’è coinvolgimento emotivo, nel secondo perché lui è concretamente escluso. Decisamente più “calde” altre scene, in primis quella della dichiarazione d’amore che il protagonista fa a Scott durante il bivacco notturno (con battute scritte dallo stesso Phoenix); ma anche quella, estremamente significativa, del risveglio di Mike a Portland, con il giovane si ritrova tra le braccia di Scott ai piedi di un monumento commemorativo dell’”arrivo dell’uomo bianco”. C’è dunque un primo riferimento a partire dalla costruzione dell’immagine che non può non rimandare ad una “Pietà”, con il protagonista in posa cristologica: forse non è fuori luogo ricordare come il senso del suo viaggio possa essere riassunto nell’ideale domanda, rivolta alla figura genitoriale, “Perché mi hai abbandonato?”, a sua volta potenziale citazione dell’interrogativo che Gesù rivolge dalla croce a suo padre. D’altra parte, l’iscrizione sul basamento della statua si può collegare al cartello che saluta i due ragazzi all’arrivo nell’Idaho: “avviso ai turisti – non ridete dei nativi”. Così, in un film che gioca molto con il tema della distanza e del tradimento generazionale, Van Sant sembra voler allargare lo sguardo alla Storia americana, denunciando la frattura tra i “padri” nativi e i “figli” bianchi. Frattura che adombra quella tra i due protagonisti: “Con gli indiani che secoli prima di lui erano gli unici proprietari delle vaste distese del Nord-Ovest americano, Mike, per una sorta di magica eredità, condivide un senso innato dello spazio e dell’orientamento” (5); Scott, di contro, con la sua scelta finale, riassume in sé i valori del denaro e del capitalismo, propri della società wasp.

ImageEcco dunque che è possibile individuare nella stessa pellicola l’obiezione ad una delle principali perplessità espresse all’epoca nei confronti di Van Sant: quella secondo cui il successo di Drugstore Cowboy e di My Own Private Idaho avrebbe potuto finire con il limitare lo sguardo del regista agli emarginati sociali (6). La risposta vera e propria arriverà di lì a quattro anni con Da morire, ma nel frattempo qualche seme è stato già gettato in questo complesso ed affascinante film.

Note:
(1) Cfr. F. Liberti, Belli e dannati, in Cineforum n. 314, maggio 1992, p. 51
(2) Cfr. J. Lap, My Own Private Idaho, in Apollo Movie Guide (http://apolloguide.com/mov_fullrev.asp?CID=3588)
(3) Cfr. E. Martini, Furori elisabettiani, in Cineforum n. 308, ottobre 1991, p. 10
(4) Cfr. M. Martin, Mythic River, in Reverse Shot n. 21 (http://reverseshot.com/article/my_own_private_idaho)
(5) F. Liberti, op. cit., p. 51
(6) K. Hillstrom (upd. R. Edelman), Gus Van Sant, in Film Reference (http://www.filmreference.com/Directors-St-Ve/Van-Sant-Gus.html)


TITOLO ORIGINALE: My Own Private Idaho; REGIA: Gus Van Sant; SCENEGGIATURA: Gus Van Sant; FOTOGRAFIA: John Campbell, Eric Alan Edwards; MONTAGGIO: Curtiss Clayton; MUSICA: Bill Stafford; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1991; DURATA: 96 min.

 


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