TFF 29/La quiete dopo la tempesta… PDF 
Mattia Plazio   

Se c’è un filo rosso che attraversa Torino, Venezia, Roma e, di riflesso, tutti i festival di cinema che costellano il nostro Bel Paese (?), è quello della polemica ad ogni costo. Sembra proprio che non si possa farne a meno, che si perda il sonno se prima di andare a dormire non ci si è scagliati contro qualcuno o qualcosa. Tappeti rossi che tanto rossi non sono, direttori scomodi a fine mandato, cineasti che, come prime donne, si rifiutano di ritirare i premi, o che si lasciano andare a dichiarazioni provocatorie, proiezioni fallite che “steccano” l’apertura e la chiusura della manifestazione, pubblici scontenti per le lunghe code, taxi in ritardo, navette che un giorno ci sono e l’altro no… La cronaca, la sterile cronaca: questo sembra essere il leitmotiv che accompagna i commenti e appassiona i commentatori di un festival cinematografico (piccolo o grande che sia), che, così per sport, preferiscono dire la propria sulla puerile controversia del giorno piuttosto che discutere costruttivamente sulla qualità delle opere selezionate e proposte al grande pubblico. Ecco allora che il giorno dopo, dei film, unici veri protagonisti, non rimane niente, soltanto qualche vago ricordo, anche laddove hanno sempre occupato un posto in prima fila, come a Torino, festival per sua stessa natura votato al low profile come scelta programmatica in favore del cinema, quello da mostrare e far vedere. Che poi si sia deciso, per chissà quale ragione, di uniformarlo nel tempo ai cugini “nobili”, dove è il glamour a dettar legge, non è affare nostro, come non è nostro interesse partecipare a quel cicaleccio un po’ insulso che ha accompagnato la sua 29esima edizione, dall’inizio alla fine. Perché se cicaleccio deve essere, in sé arte nobile, di intrattenimento fine a se stesso (che cos’è d’altronde la critica?), allora è meglio farlo parlando di cinema, di film, della produzione cinematografica di cui ogni festival che si rispetti è chiamato a misurare la temperatura.

Quella del 29esimo TFF segna 36 scarso. Pochi picchi, verso l’alto e verso il basso, è la medietà (non proprio mediocrità, ma quasi) a vincere. Che se guardiamo al reale, qui inteso come contenitore e specchio cui il cinema guarda e si guarda - rimirandosi -, può anche avere un senso: tempi mediocri chiamano sguardi mediocri, paura e terrore sono l’anticamera di un silenzio che è assenza di coraggio. Nelle scelte e nei modi di esprimersi, ancorati ad un postmodernismo di cui è già stata decretata la fine (temi.repubblica.it/micromega-online/addio-postmoderno-benvenuti-nellera-dellautenticita/), nel trattare materie scottanti come la malattia, da accettare, da esorcizzare, la morte, che è una liberazione prima ancora che una condanna, la famiglia, disgregata e poi ricomposta nel dolore, la diversità, ancora lontana dall’essere accettata e, ancor meno, valorizzata. Quella materia che ha percorso, con le dovute e inevitabili differenze, molte pellicole presentate al Torino Film Festival, in un’esplorazione forse un po’ stanca di forme e temi oggi (e sempre) ancora attuali, ma da cui sarebbe importante “allontanarsi” per fare un passo in più nella direzione di una loro rivisitazione, stilistica e poetica, che sia capace di suggerire invece che dire, di celare (per poi svelare) invece che informare, di guardare invece che analizzare. Guardare con lenti meno nitide, meno nette, una realtà sempre più sfuggente per afferrare con più forza il caos che ci circonda, che è insieme assenza di verità e suo intimo desiderio. Ma rimaniamo nel solco e proviamo a vedere insieme, un po’ per gioco, che cosa salvare e che cosa bocciare di questo 29esimo Torino Film Festival, a parte i tappeti rossi, il boccale di birra di Kaurismäki, il sorriso di Penelope Cruz, il vestito di Valerio Golino, i capelli di Gianni Amelio…

Sion Sono ed Eugène Green, due piacevoli scoperte
Indubbiamente un merito quello di aver portato all’attenzione del pubblico il lavoro di due autori che forse in pochi conoscevano. Sion Sono, sul quale per l’occasione è uscita una bella monografia a cura di Dario Tomasi e Franco Picollo (sonatine2010.blogspot.com/), rappresenta una ventata d’aria fresca nell’asfittica produzione dell’estremo oriente, con il suo mix di sesso-violenza-sangue dalle derive gore, la cui forza, tutta sensoriale, innerva le pellicole del cineasta giapponese, da Suicide Club a Guilty of Romance. E poco importa se quella stessa forza arriva spesso a compromettere, pur senza infastidire, la coerenza narrativa delle sue storie, in un concentrico affastellarsi di sogni, realtà parallele, mondi soggettivi, destrutturazioni temporali, se è vero che a essere al centro della sua riflessione è l’individuo e la sua affannosa, quanto vana, ricerca di identità (“siamo collegati”?). A pensarci, solo l’oriente, quando la smette di guardare il proprio ombelico, poteva partorire un figlio come Sion Sono. Così come è solo dalla Francia che poteva arrivare un personaggio come Eugène Green, americano di origini ma francese di adozione e, soprattutto, di sensibilità. Perché a guardare i suoi film sembra di tornare indietro di cinquant’anni, alla nouvelle vague dei Jean-Luc Godard, dei Truffaut, dei Resnais e, ancora più indietro, al cinema di Robert Bresson. Un cinema di parole e di dialoghi, ancor prima che di immagini, quello di Green, che se ne infischia del gusto dominante per andare a indagare, con uno spiccato senso del paradosso e un gusto a metà strada fra realismo e antirealismo, l’aspetto esistenzialistico dell’esperienza umana, tratteggiando con levità il mondo interiore - che diventa immediatamente esteriore grazie alla forza poietica della parola - dei suoi personaggi, in un originale percorso di ricerca della verità nella finzione. Un percorso, mai banale, che prende la forma di un cinema fatto di frammentazioni temporali, di campi e controcampi serrati, di insistiti sguardi in macchina, di dialoghi barocchi, di una recitazione antipsicologica. Tutti ingredienti per un viaggio fuori dal tempo e dalla Storia, di cui oggi si sente davvero il bisogno.

Dov’è finito il concorso?
Piatto è l’aggettivo che meglio si addice al concorso numero 29 del TFF. Una conferma, a dire il vero, di una tendenza che è ormai diventata prassi, figlia di scelte che hanno deliberatamente, e inspiegabilmente, condotto Torino ad abbondonare le strade della curiosità e della sperimentazione per abbracciare quelle più comode del già visto, già sentito, già conosciuto, in una stanca riproposizione dell’identico. Nessuna delle 16 pellicole presentate è riuscita a stupire, vuoi per l’originalità nell’uso del mezzo vuoi per la freschezza di sguardo sulla realtà rappresentata. Il risultato sta scritto nella rosa dei vincitori, tutti film che lo spettatore (cinefilo e non) dimenticherà molto presto: da Á Annan Veg dell’islandese Hafsteinn Gunnar Sigurdsson, un’onesta quanto ordinaria storia di amicizia sullo sfondo di un paesaggio da cartolina, a 17 Filles di Delphine e Muriel Coulin, che vanificano l’interessante spunto iniziale (17 ragazze che decidono di rimanere incinte nello stesso momento) con una messinscena irritante per superficialità e assenza di idee, per arrivare a Tayeb, Khalas, Yalla di Rania Attieh e Daniel Garcia, declinazione, a tratti malinconica ma più spesso noiosa, del “bamboccionismo” in versione libanese, dove a essere sul banco degli imputati è il maschio mediorientale e, con lui, un’intera cultura di stampo fortemente patriarcale. Dal naufragio si salva forse solo Le Vendeur di Sébastien Pilote che, pur gelido, ha il merito di gettare una luce obliqua, fortemente “soggettiva”, sul tema della crisi economica che ha investito il mondo occidentale, ma più ancora sulle tristi conseguenze che genera l’appiattimento del singolo su un sistema di pensiero che vede il lavoro come unica fonte di vita e di senso. Ma al di là dei vincitori, a non entusiasmare sono stati quasi tutti i pretendenti al titolo, con le parziali eccezioni del navigato, ma qui un po’ sotto tono McCarthy, 50/50 e Little Closer, tanto che la giuria presieduta da Jerry Schatzberg deve aver fatto un grosso (o un piccolo) sforzo a decidere chi premiare. Vogliamo parlare della pochezza di pellicole come Attack The Block o Serbuan Maut, nulla più che esercizi di stile ad uso e consumo di ragazzini nati e cresciuti davanti al piccolo schermo (di una console)? O degli italiani Virzì (il fratello) e Mateo Zoni, l’uno perso dietro l’ennesima storia di una band allo sbando, l’altro, benché supportato da una vicenda che sembra parlare da sola, colpevole di un voyerismo in salsa televisiva che non può non disturbare? Lontani sono i tempi, insomma, in cui il concorso del Torino Film Festival era una fucina di scoperte e valorizzazione di giovani cineasti, i cui nomi sarebbero poi diventati fra i punti di riferimento delle cinematografie dei loro paesi. E non solo.

Che ritmo questa Festa Mobile!
Se è ormai consuetudine, per il concorso, deludere le aspettative, è altrettanta consuetudine che ad avere una marcia in più sia il vecchio fuori concorso, da qualche anno Festa Mobile. Tantissime, come sempre, le pellicole proposte, divise nelle due sottocategorie di Figure nel paesaggio e Paesaggio con figure. E tante le belle sorprese, a cominciare dal cinema targato USA, i cui figli e nipoti confermano la predilezione innata della loro cinematografia per l’antica arte del raccontare: storie facili, magari già viste, ma con un ritmo, un equilibrio drammaturgico, una cura dei dialoghi, che non hanno eguali. Lasciando stare la ritrovata verve dell’Allen di Midnight in Paris, o il sempre immenso Scorsese dell’opera fiume su George Harrison, Moneyball, The Descendants, Terri, Bad Posture, Bereavement, The Dynamiter, Jess + Moss sono tutte pellicole che non sorprendono certo per profondità di sguardo, che sono molto lontane dall’essere dei capolavori, ma che hanno la forza di intrattenere con brio e intelligenza - anche con un po’ di furbizia nell’andare a toccare le corde giuste -, lasciando allo spettatore la sensazione di non aver buttato via due ore, pur non avendogli cambiato la vita. E non è poco. Non basta certo, non è quello che i palati più fini chiedono, ma è comunque una consolazione. Con gli americani, a “divertire” è stato anche il filone della “violazione forzosa di domicilio”, più Mientras duermes dello spagnolo Balagueró, film che sa giocare perfettamente con i meccanismi della suspense nel delineare il rapporto vittima/carnefice, che non 388 Arletta Avenue di Randall Cole o Dernière séance di Laurent Achard, più urlati, più grezzi, ma comunque godibili. In mezzo, fra i tanti, La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, bella storia di forza e di coraggio per una giovane coppia alle prese con la malattia del figlio, e Les bien-aimés di Christophe Honoré, di cui si è apprezzata la levità, che fa rima con verità, con la quale tratteggia il rapporto uomo-donna. Più, certamente, qualcosa che non si è visto…

La retrospettiva stanca
Robert Altman è un grande, lo sappiamo. È il cantore di un’America che non c’è più, fotografata dal regista di Kansas City con l’occhio e l’obbiettivo puntati a quello che sarebbe diventata, denunciandone, pur con indulgenza, i vizi e le storture. Eclettico, corale, a tratti geniale, è un autore che tutti rimpiangiamo. Eppure qualcosa stona nell’omaggio che il TFF gli ha riservato, qualcosa che ha che vedere con i tempi con il quale è arrivato. Troppo presto, troppo facile all’indomani della sua scomparsa. Accomodante si direbbe. Perché non aspettare un po’ e, magari, anche qui, fare una scelta più coraggiosa facendo scoprire al grande pubblico cineasti più scomodi, dimenticati, mai del tutto digeriti? Ma la risposta la conosciamo già ed è sempre la stessa…

Documentare, che passione …
Due nomi su tutti, Werner Herzog e Sylvain George, per confermare, se ce ne fosse il bisogno, che è al documentario, e alle sue forme, che si deve guardare se si vuole uscire anche solo per un momento dagli schemi. Herzog, con il suo Into the Abyss, ci trasporta come solo lui sa fare dentro la cruda realtà di un efferato omicidio ad opera di due giovani sbandati per poi entrare a piedi uniti in una più ampia riflessione sulla pena di morte e sul concetto di colpa. Con grazia, penetrando dentro lo sguardo dei suoi protagonisti, leggendone anche il più piccolo movimento, con la macchina sempre accesa in attesa di un gesto rivelatore. Sylvain George, dal canto suo, rimette mano allo scottante materiale che era andato a comporre Qu’ils reposent en révolt, qui a Torino lo scorso anno, per recuperare, in Les éclats (ma gueule, ma révolte, mon nom), frammenti di voci, di parole, di immagini, di memoria, sfuggiti al primo montaggio ma ugualmente dotati di una forza in grado di aggiornare la sua personale costellazione di invisibili: gli immigrati di Calais che, fra speranza (poca) e senso di abbandono (tanto), sono in attesa di attraversare la Manica per raggiungere un’agognata quanto utopica terra promessa. Detriti in bianco e nero che George fotografa facendo un uso espressionistico della luce, costruendo (fermo)immagini per rinchiudere volti e movimenti di un’umanità reietta, violentata, confinata in quella che, ormai, è una vera e propria geografia dell’orrore. Due modi diversi di documentare, quelli di Herzog e George, due modi ugualmente efficaci di far parlare la realtà.

Ma Coppola che fa?
Dulcis in fundo, eccoci a lui, quello che gli organizzatori del TFF hanno tirato fuori dal cilindro all’ultimo momento, come a dire… guardate in chiusura che cosa vi regaliamo. Poveretti, non è nemmeno colpa loro (anche se il film lo avranno visto prima, no?) se nessuno sa dove sia finito Francis Ford Coppola. È dura da accettare, perché Francis lo adoriamo, ma davvero non ci sono parole per definire questo Twixt, pasticcio in 3D (due sequenze due, telefonate e suggerite al pubblico con un espediente da film d'exploitation) che mescola sogno, realtà, sesso, horror cercando di avvincere lo spettatore con incaute sperimentazioni visive, ma gettandolo nello sconforto di fronte a una penuria drammaturgica che fa mettere in dubbio che si stia parlando dello stesso autore de Il Padrino e di Apocalypse Now. In sala, durante la proiezione stampa, c’è stato un solo applauso. Quando si sono accese le luci, per fermarlo, qualcuno ha gridato “ma che sei… ubriaco?”. È detto tutto.

 


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