Somewhere PDF 
Francesca Druidi   

Un festival di Venezia che si rispetti non può fare a meno, ogni anno, della sua dose fisiologica di polemiche, che condiscono le pagine dei giornali e i notiziari dei telegiornali per i giorni della Mostra, andando spesso a oscurare quelli che sono, o almeno dovrebbero essere, i protagonisti della manifestazione: i film, gli interpreti, la materia di cui è fatto il cinema insomma. Il Leone d’Oro assegnato a Somewhere di Sofia Coppola ha scontentato parte della critica presente al Lido, poi sono scattate le insinuazioni in base alle quali il presidente della giuria Tarantino avrebbe voluto favorire la Coppola in quanto sua ex fidanzata, influenzando con la sua personalità – diciamo un po’ ingombrante – anche le valutazioni dei restanti membri di giuria. Da qui anche l’intervento del ministro Bondi contro il regista di Bastardi senza gloria e il direttore del festival Müller. Cronaca a parte, il film di Sofia Coppola, giunta qui al suo quarto lungometraggio, non è un’opera che ha messo o metterà facilmente d’accordo critica e pubblico in maniera univoca.

Dopo tre film focalizzati in particolare su personaggi femminili – le “vergini suicide” dell’esordio, la Charlotte di Scarlett Johansson in Lost in Translation (presentato tra l’altro alla Mostra del Cinema di Venezia) e la Marie Antoinette di Kirsten Dunst –, Somewhere ritorna in parte sulle orme tracciate dal personaggio di Bob Harris (Bill Murray) nel secondo film della regista, per percorrerle con uno sguardo differente. Come Bob, anche Johnny Marco (Stephen Dorff), divo del cinema hollywoodiano, è un uomo famoso. E come Bob, Johnny si è smarrito, ha perso le coordinate del proprio cammino. O forse non le ha mai avute. Ma non sembra preoccuparsene. Si lascia vivere tra alcol, sesso disimpegnato e monocordi spettacolini di pole-dance realizzati appositamente per lui da due gemelle spogliarelliste. Johnny conduce un’esistenza priva di relazioni sociali e affettive – con l’unica eccezione dell’amico Sammy (interpretato da Chris Pontius) – o ancorché lavorative, considerando quanto la carriera di attore sembri contare poco per lui, incidendo solo tangenzialmente nelle sue giornate che scorrono pressoché uguali (all’inizio del film lo vediamo impegnato, senza alcuna convinzione, nel lancio del suo prossimo lavoro Berlin Agenda). Il protagonista è dunque bloccato in un circolo vizioso, ben figurativizzato dai giri compiuti sulla sua Ferrari all’inizio del film lungo un circuito in una zona desertica dalle evidenti suggestioni simboliche. Ancor più significativo il fatto che Johnny risieda allo Chateau Marmont, leggendario hotel di Los Angeles che appartiene ormai alla cultura americana pop contemporanea: non solo per la morte di John Belushi, ma anche perché vi hanno risieduto alcune delle più celebri personalità della musica e del cinema. E se l’hotel in genere identifica un non-luogo, caratterizzato da una dimensione di estraneità dal quotidiano e di transitorietà per la fuggevolezza degli incontri che vi avvengono, nel cinema di Sofia Coppola l’albergo assurge a milieu fondamentale in cui sviluppare i personaggi e le loro interazioni, riuscendo a far emergere in modo naturale il loro disorientamento e straniamento nei confronti della vita. Come in Marie Antoinette il rapporto tra la protagonista e Versailles diventava centrale all’interno del discorso filmico, così in Somewhere lo Chateau Marmont esprime tutta l’incapacità di Johnny di portare avanti la sua esistenza, ma prima ancora svela la sua incapacità a prendere coscienza del proprio immobilismo. La svolta avviene nel momento in cui l’attore è costretto ad occuparsi in maniera prolungata della figlia di 11 anni, Cleo (Ellen Fanning), nata dall’unione con l’ex moglie, che era solito vedere ogni tanto e per poche ore. Il repentino allontanamento della madre di Cleo permetterà ai due di conoscersi meglio, generando in entrambi, ma soprattutto in Johnny, importanti cambiamenti di prospettiva. È interessante rilevare nel film l’elemento autobiografico riconducibile a Sofia Coppola, abituata fin da piccola a seguire gli spostamenti del padre Francis Ford e, quindi, a trascorrere molto tempo negli alberghi, scrutandone la varia umanità che li abita.

Somewhere è un’opera dolente e minimalista, calibrata in ogni sua componente, dalla musica alla luce naturalistica del direttore della fotografia Harris Savides. L’uso misurato e consapevole dei movimenti di macchina, e la tendenza ad impiegare piani fissi e lenti zoom, risultano assolutamente funzionali all’obiettivo della cineasta statunitense: cogliere un personaggio, quello di Johnny, in un momento della vita nel quale è costretto a guardare se stesso in modo malinconicamente realistico, senza filtri, rendendosi improvvisamente conto di non poter più rimandare e di dover decidere che tipo di persona diventare. La scoperta della paternità nei suoi risvolti quotidiani, catalizzatrice di questa progressiva presa di coscienza del protagonista, non è però rappresentata dalla Coppola come un evento in grado di produrre effetti melodrammatici o sconvolgenti né sulla messa in scena né sul fronte della scrittura. Il crescente rapporto di complicità tra padre e figlia è infatti rimarcato da episodi non eclatanti o eccezionali, quanto piuttosto da situazioni ordinarie (un gelato, una nuotata in piscina), ma che costituiscono in definitiva la spina dorsale della pellicola. Il tempo trascorso con Cleo a Los Angeles, nella trasferta italiana a Milano per la fantomatica notte dei Telegatti e a Las Vegas, permette a Johnny non solo di alimentare un legame a tutti gli effetti nuovo con la figlia, ma soprattutto di aprire gli occhi, comprendendo il suo bisogno di andare da qualche parte (somewhere appunto), sterzando dall’apatia della sua vita da star, vissuta fino a quel momento senza entusiasmi e afflati vitali. Un bisogno che si traduce in un finale legato a doppio nodo dall’incipit iniziale e destinato a percorrere traiettorie non definite o definitive.

Pur essendo – per questi aspetti sopracitati – un’opera valida e interessante, coerente con la visione di cinema della Coppola, Somewhere non identifica però un passo in avanti nel percorso registico della cineasta americana. Dopo lo sforzo rappresentato da Marie Antoinette, e i riscontri non sempre favorevoli ricevuti dal film, la Coppola ha forse preferito non prendersi eccessivi rischi nella scrittura e nella direzione di quest’ultimo lavoro, optando per strade in qualche modo già calcate in Lost in Translation. Si tratta di un film che sicuramente ha il pregio di non essere retorico, o peggio ancora stucchevole nella rappresentazione del legame padre-figlia, ma il cui voluto minimalismo – che si riflette nelle scelte stilistiche, estetiche e nella sceneggiatura – rischia qui di diventare un limite piuttosto che un pregio. Il lavoro di sottrazione attuato dalla Coppola, soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi e nella riduzione all’osso dei dialoghi, finisce per comprimere e asciugare fin troppo la dimensione emotiva del racconto, anche sul fronte di quella che dovrebbe essere la linea portante del film, il quale mira a essere, soprattutto, un racconto sulla maturità. Le scene veramente toccanti, come quella della seduta di trucco in cui Johnny rimane solo, imprigionato in una sorta di maschera simbolica oltre che materica, sono poche e non sfuggono del tutto a una volontà didascalica da parte dell’autrice stessa, nonostante la sua intenzione sia quella di rendere tutto il più spontaneo possibile. Da qui probabilmente le accuse di freddezza mosse alla pellicola da una parte della critica e spesso anche da parte del pubblico. Somewhere, insomma, è un film che si apprezza più con la testa, per le indubbie doti della Coppola, che non per la profondità di ciò che emerge dal tessuto narrativo del film.

TITOLO ORIGINALE: Somewhere; REGIA: Sofia Coppola; SCENEGGIATURA: Sofia Coppola; FOTOGRAFIA: Harris Savides; MONTAGGIO: Sarah Flack; MUSICA: Phoenix; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 98 min.

 


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