Ciprì, Maresco e l’(est)etica del cliché PDF 
di Fulvio Montano   

Fresco di proiezione nella sciccosa cornice festivaliera del Lido e ultima tra le tante fatiche del duo siciliano Ciprì&Maresco, Come inguaiammo il cinema italiano approda nelle sale preceduto dagli elogi della critica e accompagnato dalla pressoché totale indifferenza del pubblico, che nella prima settimana di programmazione (parola di esercente) ha pensato bene di tenersene il più possibile alla larga.

Solita sorte da film d'autore direte voi, eppure sembra così strano che in un momento sospeso tra la rivalutazione postuma del cosiddetto trash nostrano e la (non ancora) definitiva affermazione del documentario come genere e pratica autonoma dal cinema in pellicola, l'omaggio al duo più prolifico del cinema italiano non abbia riscosso quel successo (seppur minimo) che sembrava legittimo attendersi.

Sarà che alla coppia di CinicoTV non hanno ancora perdonato gli eccessi stilistici de Lo Zio di Brooklin o i vilipendi religiosi di Totò che visse due volte, ma la vis comica de Il ritorno di Cagliostro avrebbe dovuto (a mio avviso, s'intende) ristabilire la pace persino con il pubblico ozioso e ben pensante da multiplex di periferia, imbambolato a bere Cocacola e a ingollar popcorn. Invece, si diceva, niente da fare.


Ma insomma,'sto film com'è?

Ecco, ad esser sinceri il succitato film è abbastanza brutto, entrando nel dettaglio lento, a tratti noioso, sostanzialmente inutile. Ma volendo avventurarsi in una disamina giustamente più tecnica delle calde sensazioni del momento, che nel buio della sala cullano i sogni dei pochi ostinati spettatori, Come inguaiammo il cinema italiano è un documentario a mio avviso non del tutto riuscito.

Quasi a ricalcare le orme del film precedente, questo appare a tutta prima irrimediabilmente sbilanciato: tanto curato nella prima metà (bellissima la fotografia di Daniele Ciprì e discreta l'introduzione dei due personaggi) quanto raffazzonato nella seconda, che sembra non veder l'ora di chiudere con i funerali di Francesco Benenato (in arte Franco) ed il commento accorato del compagno Francesco Ingrassia (Ciccio), che morirà, pure lui, di lì a poco.
Uno squilibrio forse dettato dall'urgenza dell'imperdibile scadenza veneziana, che rimestando la solita frittata di freaks presentati in bianco e nero, di materiale d'archivio scelto con discutibile attenzione, voce narrante sarcastica e un po' didascalica, ha il gran demerito di tessere un'apologia ambigua e insoddisfacente, che sembra avere come unico scopo quello di lasciare il pubblico alla porta, limitandone oltre misura il coinvolgimento. Furbescamente strutturata in maniera cronologica e lineare (d'altronde d'un film biografico si tratta), la narrazione si limita a suggerire spunti che poi evita di approfondire e ad aprire strade poi lasciate a metà, riuscendo ad essere incomprensibilmente deficitaria nella valorizzazione del soggetto rappresentato (il duo), trattato con un misto di fastidio e noia da far rimpiangere i bellissimi omaggi di Ciprì&Maresco a Duke Ellington (Noi e il Duca, 1998), Miles Davies (Miles Gloriosus, 2001) e Enzo Castagna (Enzo domani a Palermo, 1999), gradevolmente sostenuti da una freschezza appassionata e sincera, più che dal mestiere, come in quest'ultimo lavoro.

E vien quasi rabbia quando il documentario ha un sussulto, come nell'intervista a Bernardo Bertolucci, che replica all'affermazione di Goffredo Fofi ("La parodia di una finta opera d'arte finisce spesso per essere migliore dell'originale. E' per questo che Ultimo tango a Zagarol è più bello di Ultimo tango a Parigi") borbottando che i film di Franco e Ciccio lui preferisce non guardarli.

Film senz'anima, Come inguaiammo il cinema italiano mostra tutti i limiti della pratica di cinema scelta da Ciprì&Maresco sul lungo periodo: impelagati nell'autocelebrazione danno la sensazione di un progressivo esaurimento della carica eversiva che li ha resi celebri testimoni di una realtà, quella siciliana, unica e cinicamente contraddittoria, sospesa tra il lascito di una spietata tradizione di povertà e omofobia ed un presente ancora oscurato dalla lunga mano della delinquenza organizzata.

Non può quindi che farsi evidente il patetismo di alcune sequenze, quali la passeggiata per Palermo del simpatico Gregorio Napoli (già visto identico in Il ritorno di Cagliostro), il concertino della banda di paese (la medesima di molti altri lavori del duo) e lo sterile sbeffeggiamento del giovane critico Francesco Puma, perennemente a disagio davanti all'obiettivo della camera. Senza parlare della carrellata finale di faccioni più o meno noti che non hanno trovato posto nella versione ultimata del film, inseriti in coda quasi a voler rassicurare lo spettatore che, a differenza di quel che sembra, lavoro se ne è fatto tanto.

Ciprì&Maresco nuova versione, quelli per intendersi prodotti dall'Istituto Luce, fanno insomma rimpiangere la freschezza degli esordi dietro la cinepresa, la genialità di uno stile pressoché unico in Italia e l'ostinazione nel voler insistere sulla propria strada, indifferenti alle critiche di una morale oscurantista intrisa di perbenismo e cattolicesimo. Come dire, si stava meglio quando si stava peggio.

Terminata la proiezione e riaccesese le luci, guadagnandomi a fatica l'uscita in una gelida serata di fine settembre, fisso il cartellone del film con Franco e Ciccio carcerati che mi fissano da dietro le sbarre, mentre rapido si insinua in me un dubbio che articolo in sole cinque parole: e questi chi sono!?

 


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