Che un sano patriottismo, giammai super partes, investisse l'ultimo lavoro di Bryan Singer era naturale almeno quanto la spontaneità con cui ha reso esplicito e doveroso omaggio all'indimenticato Christopher Reeve. Che il risultato non sia stato un lezioso remake del film di Richard Donner del 1978 sorprende invece, tradendo le aspettative maldisposte e qualche cinico pregiudizio. Sembra aver ereditato l'impianto cinematografico del primo Spielberg il giovane ma già affermato Singer, in grado di prestare attenzione a personaggi per lo più smaliziati e di attirare l’interesse di un pubblico che la malizia non sa ancora cosa sia. In questo film, ideale seguito del Superman II di Richard Lester (siamo nel 1980), il protagonista -il buono- Superman alias Clark Kent, interpretato da Brandon James Routh la cui timidezza affonda sotto i chili di cerone che plastificano il viso, piomba a Smallville pronto a salvare di nuovo l’umanità dopo un'assenza di 5 anni passati alla ricerca del suo paese natale e di eventuali altri superstiti di Ktypton. Il suo antagonista -il cattivo- Lex Luthor, un Kevin Spacey frigido e maligno almeno quanto il pinguino De Vito nel Batman burtoniano, appena scampato a un doppio ergastolo perché Superman ha dimenticato di presentarsi in corte d'appello -sic!- sta covando la sua ultima, maligna genialata: far sorgere, per opera dei cristalli provenienti da Krypton, una nuova terra a largo, si fa per dire, dalla costa statunitense. La nuova missione, mai impossibile per l’uomo d’acciaio, sarà resa ancora più difficile dalla scoperta dolorosa che l'amata Lois Lane -la bella- una poco convincente Kate Bosworth, ha un figlio di 5 anni con un altro uomo e sta per vincere il premio Pulitzer con un articolo intitolato "Perché il mondo non ha bisogno di Superman". L'eroe, che di umano ha non solo la seconda identità e che sembra essere più vulnerabile ai sentimenti che alla kryptonite, saprà destreggiarsi con la sua insuperabilità tra aerei che stentano ad atterrare (ma d'altronde Superman è sempre stato in volo), un pestaggio (di marca kubrickiana), le fatiche ercoline e, maestus in fundo, il coma. Azzardato, ahinoi, il disinibito osanna a un Marlon Brando irriconoscibile e, non a torto, irriconosciuto dai più, che però ha il compito di ribadire che Superman è per gli umani prima di tutto una guida morale: «Anche se sei stato cresciuto come un essere umano, tu non sei uno di loro. Loro sanno essere delle grandi persone, Kal-El. Vorrebbero esserlo. Quello che a loro manca, è solo la Luce che indichi la strada per questa ragione - la loro conoscenza della bontà - ho mandato te... il mio unico figlio». Se è facile cedere alla tentazione degli effetti speciali, benché non ci sia stato nulla di nuovo all'orizzonte, non lo è resistere ai dialoghi che, facilmente, tirano il solito sbadiglio dopo molto rumore. Giusta la dose di umorismo e di ironia, legate soprattutto al personaggio di Lex Luthor, che strizzano l'occhio ai teenager e fanno guadagnare il loro consenso. Sebbene Singer abbia dato un suo personalissimo stile alla pellicola, Superman returns può colpire solo il cuore (oltre ai timpani) di quanti hanno sempre amato l'eroe che si è fatto uomo per noi, inscritto nella mitologia moderna dall'esordio tra le (stelle e) strisce. Se per Spiderman (Sam Raimi) da grandi poteri derivano grandi responsabilità", figurarsi quando si tratta di super-poteri! E Singer ne aveva non poca di responsabilità.
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