Cinema e verità: Segreti di stato e Buongiorno, notte PDF 
di Andrea Bettinelli   

Presentati entrambi alla 60a edizione della mostra di Venezia, Segreti di stato di Paolo Benvenuti (sulla strage di Portella della Ginestra, 1947) e Buongiorno, notte di Marco Bellocchio (sul sequestro di Aldo Moro, 1978) hanno suscitato, com'era prevedibile, un dibattito di taglio storico-politico assai più che cinematografico. Ora che si sono spente le luci del Festival, potrebbe essere opportuno riportare il baricentro della riflessione sui valori estetici dei due film, che rappresentano due modelli esemplari di come un regista possa risolvere il problema del rapporto tra cinema e storia.


Il soggetto di Segreti di stato si sovrappone in più punti con quello di Salvatore Giuliano di Francesco Rosi (1962), un classico del cinema italiano che rappresenta un po' il capostipite del genere del film-inchiesta. Ritornano in entrambe le pellicole l'episodio della strage di Portella, l'omicidio di Giuliano, il processo di Viterbo, l'avvelenamento di Gaspare Pisciotta all'Ucciardone. Rosi e Benvenuti partono da una medesima concezione politica del cinema, ma giungono a soluzioni molto diverse.

Rosi ha compiuto in prima persona un lavoro di documentazione che non si è limitato alle fonti ufficiali, ma ha compreso le testimonianze orali delle persone che hanno vissuto all'epoca degli eventi. I dati così raccolti sono stati tradotti in una messa in scena molto asciutta, caratterizzata da uno stile quasi documentaristico, in cui nulla è concesso al romanzesco e dove soprattutto vengono rispettati – tramite ellissi e reticenze – i buchi e i punti oscuri del materiale di partenza. La strage di Portella della Ginestra, ad esempio, è raccontata utilizzando i soli elementi sicuri: la presenza di Giuliano sulle alture, i manifestanti che cadono sotto i colpi delle armi da fuoco. Rosi non ci fa vedere chi abbia sparato, così come non mostra mai – se non di sfuggita – il bandito Giuliano. Il suo obiettivo è quello di drammatizzare un materiale di archivio che contiene in sé i suoi interrogativi (relativi soprattutto all'intervento occulto dello Stato nelle vicende della Sicilia) e sottoporli al giudizio critico dello spettatore, stabilendo un patto di fiducia con lui, mostrandogli una finzione che è tale solo per il ricorso a un linguaggio convenzionale (1) . L'intento di Rosi è in ultima analisi politico, ma anche sociologico e quasi antropologico, volto a penetrare nel cuore della cultura e della mitologia ancestrale della Sicilia.

Benvenuti si è messo sulle orme delle ricerche del sociologo siciliano Danilo Dolci sulla strage di Portella della Ginestra e ha raccolto tutti i documenti disponibili – vengono elencati fra i titoli di testa del film – in grado di smentire la verità ufficiale e processuale e di dare fondamento alla tesi della "strage di Stato", collocando l'eccidio all'interno della politica anticomunista delle istituzioni italiane e dei servizi segreti americani. Per uno scrupolo filologico, tuttavia, Benvenuti non ha tradotto il suo materiale in una nuova messa in scena della strage, riscrivendo la corrispettiva pagina del Salvatore Giuliano di Rosi. Ha costruito invece l'azione di Segreti di stato attorno a un'indagine condotta dall'avvocato di Gaspare Pisciotta, sulla scorta del film poliziesco americano degli anni Quaranta e Cinquanta.

 

I frammenti di verità e le ipotesi sulla dinamica dei fatti che di volta in volta emergono vengono offerti allo sguardo dello spettatore attraverso forme alternative di mimesi, che ricorrono all'oralità o a procedimenti didascalici, a elementi insomma extra-cinematografici, dai disegni dell'avvocato al plastico del perito balistico, il cui fine – come ha rivelato il regista in un'intervista di grande interesse (2) – è quello di contraddistinguere con una marca linguistica il campo delle ipotesi non ancora accertate. Il passaggio alla messa in scena tradizionale, alla rappresentazione realistica, viene evitato perché in esso – secondo Benvenuti – si rischia di annullare il metodo critico e di fornire allo spettatore una verità univoca e cristallizzata, mentre Segreti di Stato vuole essere "un film sul pensiero e sull'interpretazione, non sulla realtà". Non a caso il regista ha inserito nel montaggio del film alcuni spezzoni tratti da cinegiornali d'epoca, formalmente realistici ma sostanzialmente falsi: in un caso la mdp si sofferma con un dettaglio su un proiettore, alludendo all'ambiguità e alle potenzialità falsificatorie della rappresentazione cinematografica.

Non so quanto abbia giovato alla riuscita della pellicola questa "rinuncia al cinema" a favore di una scoperta didascalicità. In una sequenza, in particolare, per altro oggetto di molte polemiche, un professore siciliano (interpretato da Sergio Graziani) illustra la rete di mandanti che si celerebbe dietro la strage, disponendo su un tavolo le fotografie dei personaggi citati, da De Gasperi a Scelba e Andreotti, da papa Pacelli a Truman. Il procedimento escogitato dal regista – la messa in scena alternativa – sembra non funzionare: l'espediente didascalico, invece di smorzare, amplifica l'evidenza oggettiva dei ragionamenti del professore. Ipotesi e verità finiscono per confondersi; più il racconto si fa didascalico e scoperto, più rischia di diventare assertivo. Benvenuti deve essersi accorto di questo rischio e ha inserito nella scena un elemento in funzione attenuante: una folata di vento entra dalla finestra e manda all'aria le carte, quasi a ricordare che si tratta di una costruzione ipotetica, di una verità indiziaria.

 

Buongiorno, notte di Marco Bellocchio rappresenta un netto superamento dei limiti in cui si sono (volutamente) posizionati gli altri registi che hanno raccontato il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro: Giuseppe Ferrara, con il suo Caso Moro (1986) (3) , e Renzo Martinelli con Piazza delle cinque lune (2003). Che sono, ben inteso, i limiti del film a tesi, in cui la messa in scena è determinata in modo assoluto da motivazioni di ordine ideologico, nei casi citati dalla volontà di accreditare la morte dello statista democristiano come un "delitto di Stato" e di svelarne le trame occulte e presunte. Si tratta di un genere che ha ovviamente i suoi pregi e i suoi difetti; che in questo caso tuttavia sembra troppo angusto rispetto alle infinite sfaccettature del soggetto di partenza. Nel film di Ferrara, per di più, le realtà accertate, le verità ipotetiche e le invenzioni finiscono per confondersi in un quadro indistinto, dove risulta falsato soprattutto il rapporto tra i sequestratori e il prigioniero, in un tentativo di umanizzare e riscattare la posizione etica dei brigatisti.

Bellocchio si è posto di fronte alla stessa vicenda con un intento diverso, che non esclude valutazioni politiche di ordine generale (dal paragone istituito tra i brigatisti e i fascisti fino al giudizio negativo sulla linea della fermezza del governo democristiano), ma che finisce per spostare l'oggetto della rappresentazione su un altro livello, più complesso e più consono alle finalità del cinema. Innanzi tutto, si è ispirato al libro-testimonianza di Laura Braghetti, una dei carcerieri di Aldo Moro : il che equivale già a porsi in un'ottica particolare e rinunciare al classico film d'inchiesta . E tuttavia non ha voluto mettere in scena il caso personale della Braghetti e la sua storia privata. Per evitare questo equivoco, ad esempio, nella sceneggiatura ha modificato il nome della donna, che diventa Chiara (interpretata da Maja Sansa). L'idea cinematografica su cui si basa Buongiorno, notte consiste nel tentare di ricostruire non la psicologia della brigatista, ma la sua posizione morale in termini simbolici e assoluti, il suo trovarsi di fronte a un bivio tra il Bene e il Male e il suo scegliere la strada del Male, non come fatalità e necessità storica, ma come libera scelta. La possibilità del riscatto etico viene espressa attraverso le scene oniriche in cui Moro esce per strada e torna in libertà. Il film si conclude con un'accentuazione di questo conflitto, attraverso un montaggio alternato di due finali diversi, quello tragico e reale della morte, quello lirico e immaginario della fuga: raccontando non solo come si sono svolti i fatti, ma come avrebbero potuto e dovuto.

 

La regia mette in atto alcuni procedimenti di umanizzazione del personaggio di Chiara, ad esempio attivandone la funzione materna (nella sequenza in cui la vicina le consegna il neonato) e quella filiale (anche nei confronti di Moro, padre simbolico), perché vuole favorire una parziale immedesimazione da parte del pubblico. Lo sguardo di Chiara – su cui la mdp indugia con frequenti dettagli – finisce per coincidere con quello dello spettatore di oggi, della nostra coscienza e sensibilità, introdotte per mezzo della finzione cinematografica nel cuore di una tragedia che esige da parte nostra una partecipazione emotiva e una presa di posizione morale.

Con Buongiorno, notte il cinema si svincola dal rapporto ancillare nei confronti della Storia e della politica, andando a collocare la propria ricerca in un terreno che non appartiene più alle altre discipline. Il regista può – all'interno di un rispetto complessivo e sostanziale della storia – forzare la precisione della cronaca per attingere una verità ulteriore, simbolica e universale. La rappresentazione della liberazione di Aldo Moro non serve alla comprensione storica dei fatti (che purtroppo andarono diversamente), ma all'individuazione di una verità – il valore dell'individuo, la centralità della vita umana, il sentimento della pietà – che avrebbe dovuto illuminare i protagonisti del passato e che vale ancora per quelli del presente.

(1) S. ZAMBETTI, Francesco Rosi, La Nuova Italia, Firenze 1976; F. BOLZONI, I film di Francesco Rosi, Gremese, Roma 1986
(2) Si veda l'intervista al regista pubblicata nel volume P. BARONI – P. BENVENUTI, Segreti di Stato. Dai documenti al film, Fandango, Roma 2003
(3) Tratto dal libro di R. KATZ, I giorni dell'ira, ADN Kronos, Roma 1982

 


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