Primo amore: l'imbarazzo di un amore PDF 
di Manuela Russo   

Il film è tutto contenuto nell'apparente semplicità del titolo: è il primo vero rapporto di coppia - d'amore per Vittorio, l'orafo vicentino protagonista della pellicola – che dell'amore adolescenziale sembra inizialmente possedere, agli occhi dello spettatore, tutto l'imbarazzo.

Un tremendo (e dolce) ossimoro emerge presto dall'accostamento fra il titolo e il farsi stesso del film: storia di una malattia, ammantata dell'illusoria dolcezza che le parole 'primo amore' richiamano nell'immaginario collettivo.
La nascita della passione raccontata da Garrone ha poca vita: quello fra Sonia e Vittorio è in effetti un amore nato prematuro, sottopeso. Non sondato, non approfondito nei suoi primordi, è anzi molto schematico nel suo principiare ed esprimersi: l'incontro al bar a seguito della lettura di un annuncio, la passeggiata, il rapporto sessuale, il tentativo non riuscito di portare dei fiori alla ragazza per far perdonare la propria scomparsa, l'orgoglio nel mostrare alla donna il proprio laboratorio di artigiano. L'iter di questo amore sembra rispondere alla volontà del regista di far emergere dalla piatta consuetudine un sentimento folle, avulso da ogni ragione, avente come unica logica quella, tutta interna a due solitudini, di un legame morboso che non nasce dalla conoscenza, bensì dal 'riconoscersi' bisognosi di attenzioni.


Primo amore perché immaturo, nato dalla voglia di innamorarsi e dal desiderio di allineamento: trovare l'amore di un uomo, avere una donna al proprio fianco, magari da presentare ai propri dipendenti; è da un forte e tutto sommato 'sano' bisogno di normalità che affiora la patologia: un orrore che è tale perché emerge dal dimesso realismo della parlata veneta, dall'ambiente fortemente caratterizzato del laboratorio orafo che, al tempo stesso, si fa metafora della volontà alchemica dell'artigiano di trasformare e plasmare la materia, perché ne rimanga la nuda e preziosa essenza.
La trama (non una storia d'amore, bensì una storia sul fraintendimento dell'amore) sembra reggersi su una serie di antinomie, che contribuiscono a disegnare il gioco di forze che si crea tra i due protagonisti (conflitto quasi grafico, prefigurato dal diagramma che Vittorio traccia per documentare la variazione di peso di Sonia), forse l'elemento di maggior fascino nelle potenti storie raccontate da Garrone.

Un profondo scollamento, per esempio, separa il modo in cui Sonia, con intimità, si rivolge a Vittorio ("Vitt", come lo chiamano anche gli amici di sempre) e la mancata confidenza tra i due. Una confidenza che è tutta intima e abilmente taciuta dal film. Ogni sequenza è in effetti la messa in scena di un imbarazzo: dal primo incontro tra i due, quando Vittorio non nasconde di aver immaginato Sonia più magra, al loro scambio di battute dopo l'amore, alla scoperta, da parte dell'uomo, del 'peccato di gola' (un biscotto) commesso da Sonia. Paradossalmente, e allo stesso tempo in risposta a una logica stringente, lei appare in forte imbarazzo nei momenti in cui si trova vestita davanti a Vittorio (quando non se ne vedono le ossa, si direbbe), mentre è a proprio agio standogli nuda innanzi (quando posa all'Accademia, nei momenti d'amore, quando Vittorio le fa il bagno nella vasca).

Quanto la vicinanza fra i due appare esteriormente imbarazzata, tanto più il loro legame è forte, avvolgente e morboso nell'interiorità del loro mondo (si veda, per tutte, la sequenza dello svenimento di Sonia nella discoteca: la ragazza, non appena riacquista conoscenza, strattona le persone che vogliono soccorrerla e allontanare Vittorio, avvinghiandosi poi strenuamente a lui.)
E ancora, a scontrarsi nel film sono il desiderio del bello assoluto vagheggiato da Vittorio e il bisogno di essere amata di Sonia, forze che si sovvertono nel desiderio di far felice il proprio uomo e nel bisogno che ha lui di accordare il corpo alla testa della donna. Tale ideale anoressico di bellezza, a sua volta, entra in conflitto con l'impellente necessità di cibo di Sonia, la quale, al tempo stesso, nutre l'ideale di un amore che a tutto è disposto a rinunciare.

 

In Primo amore, un fin troppo patente rapporto di sudditanza della vittima (Sonia) nei confronti del proprio carnefice (Vittorio) sembra aver preso il posto del complesso e subdolo conflitto di forze che si instaurava, ne L'imbalsamatore, fra i tre personaggi che lottavano fra loro per un pugno di felicità. A ben vedere, però, il rapporto fra Sonia e Vitt sembra rispondere a una logica diversa, quasi masochista: i due stanno insieme in virtù della sofferenza che si infliggono; ecco che quindi l'uomo può apparire vittima della propria malattia, mentre Sonia la alimenta prestandosi al massacro e trasformandosi poi definitivamente in carnefice, nel tentativo di uccidere l'uomo stesso, una volta presa coscienza dell'orrore della sua condizione e di quella dell'altro.

Un film, dunque, anche sulla domanda irrisolta di che cosa sia l'amore, la passione e la devianza, su essere e nulla: sulla facoltà, cioè, di far essere ciò che si vuole, sulla capacità di annullarsi per un uomo e ancora di distruggersi, in un delirio di onnipotenza, nel compimento di una macabra opera. Sul nodo ancestrale tra eros e thanatos: mentre lei appassisce, lui muore alla sua vita di sempre, per rinascere ai suoi desideri, alla vita che voleva (lo vediamo, per esempio, riappassionarsi alla batteria che suonava un tempo). Sonia, ragazza qualunque, comune fin nell'aspetto, assume la propria identità, la coscienza di sé attraverso le sottrazioni cui si costringe prima ed è costretta poi, e nel tentativo di rinuncia estrema attraverso l'omicidio.

Anche se la prima impressione è un'altra, come si vede, le antinomie non appartengono sempre e definitivamente alla sfera d'influenza dell'uomo o della donna, ma si insinuano vicendevolmente nella personalità e negli atteggiamenti dell'uno e dell'altra, riproponendo il movimento di forze, la mobilità del dominio psicologico di cui si diceva. Il film continua a giocare su scollamenti, uno dei quali viene apertamente enunciato da Vittorio nel momento in cui la coppia si trova al lago su una barca: Vittorio denuncia lo sfasamento fra lo stato in cui è Sonia, ferma con la testa a quando pesava cinquanta chili, e quello che invece vive lui, già proiettato nel futuro, quando lei raggiungerà i quaranta. Superba la soluzione registica adottata da Garrone per sottolineare tale delirio programmatico: i volti di Vittorio e Sonia rimangono a lungo fuori fuoco; più che ombre, come le definisce il regista, sembrano facce 'sciolte', bruciate dal fuoco, attraverso le quali torna la metafora, forse un po' insistita, del fuoco che riduce all'essenza la materia, rendendola 'pulita' e perfetta; oppure ancora, la loro evanescenza sembra separarli ed estraniarli definitivamente dal nitore del paesaggio nel quale le loro figure sono inserite, fino a restituire del corpo l'essenza residuale: l'anima nuda, senza l'involucro protettivo della carne.

Si assiste paralizzati a un amore incomprensibile, ché si alimenta della mancanza di gioia, barattata con l'ideale di una bellezza malata; si segue la storia del corpo nudo di lei (l'unica traccia d'amore forse è proprio il suo slancio verso Vittorio) che, sola, fa l'amore con l'uomo, mentre il corpo di lui si riduce a una testa rasata, a mani e polpastrelli ruvidi che toccano le vertebre della donna (momento di una sensualità così tattile, che attraverso le mani potenti di lui anche allo spettatore pare di toccare Sonia, il cui corpo appare quanto mai intenso), a uno sguardo socchiuso e privo di espressività. Dei corpi estremi dei due protagonisti si fa specchio l'immagine filmica denudata, essenziale catturata dalla macchina da presa di Garrone e dalla fotografia 'nera' di Marco Onorato.

 

Il regista afferma di essere partito da uno spunto soprattutto visivo, in quanto la scelta di un progetto è per lui legata alle immagini che tale spunto offre: per L'imbalsamatore si trattava dell'idea di mettere in scena tanti animali, mentre per Primo amore è la suggestione di un uomo che decide di cambiare il corpo di una donna. La stessa regola sembra valere anche per gli attori e i luoghi (Garrone ha passato un intero anno a Vicenza): costruire il film a seconda di quello che il regista vede; non ambientarlo in un posto, ma lasciare che da quel posto emerga il film e la sua scrittura. In questo senso, forse, il suo stile mantiene un'impronta documentaristica. Primo amore come L'imbalsamatore parte, infatti, da un fatto di cronaca, per poi distanziarsene e lasciar scorrere la storia di un'ossessione tra immagini di violenta bellezza, che molto devono alla formazione pittorica del suo artefice. Persino il corpo di Sonia, prima del feroce dimagrimento, è forma allo stato puro, intensa e rappresentabile artisticamente; come unica e identica è la passione di regista e protagonista per la cura della forma perfetta. Matteo Garrone ricalca le ossessioni di Vittorio: il suo è un tentativo di cinema incontaminato, asciutto, da cui venga bandito tutto il superfluo. Non a caso Peppino era un imbalsamatore, Vittorio un orafo ed entrambi sono personaggi manipolatori che finiscono per soccombere alla loro creatura.

La ricerca della bellezza che nel film precedente si manifestava, tra l'altro, attraverso l'arte dell'imbalsamazione di animali, è qui ossessivamente presente nella creazione di oggetti in oro dalle forme affusolate e nel rigore dell'inquadratura, che privilegia prospettive claustrofobiche, ritagliando sapientemente gli spazi. Vittorio vive in una gabbia tutt'altro che metaforica: nelle prime sequenze è ritratto dietro le inferriate della sua casa – laboratorio; ci porta dentro la giovane donna e il loro rapporto, surreale e asfittico, trasforma anche i luminosi spazi aperti: persino la teoria di alberi fra i quali si nasconde per gioco la ragazza, all'inizio della storia, può apparire come una gabbia di tronchi, o la bellezza di una torre vicentina nel verde smeraldo, diventare luogo di un esilio autoimposto, sulla cui sommità si asserragliano i due prigionieri.

È un film di una bellezza, paradossalmente, molto sgradevole, di una complessità quasi soffocante, disturba e ferisce, è rigoroso, stilisticamente impeccabile, forse non del tutto risolto sul piano psicologico. Imbarazzato e imbarazzante quando si scosta dalla valenza metaforica del racconto ed entra nello specifico (per esempio le scene in cui compare il cibo), nell'estrinsecarsi del rapporto di dominio, il film fatica, infatti, a diventare rappresentativo di un rapporto malato (tranne che nella scena nel negozio di abbigliamento), forse anche in virtù del fatto che, a differenza di quanto avveniva in un film come L'imbalsamatore, in cui la macchina da presa raccontava dall'esterno, oggettivamente, la vicenda, in Primo amore essa acquista invece uno sguardo soggettivo, instabile come la calma spietata di Vittorio.

 

Mentre si guarda, se ne subisce la fascinazione; nel ricordo resta la secchezza dei modi dell'uomo, le vertebre di Sonia sgranate come un rosario fra le dita di lui, la parlata veneta trascinata e realistica che spiega con calma e forza una logica folle, ma espressa con tale lucidità, da essere quasi convincente ("Ti piaci di più così? Rispondimi!" "Sì!". Dialogo sullo sfasamento: lei rimasta ai 50 chili, lui che immagina quando ne peserà 40). Restano impressi gli accurati movimenti di macchina che avvicinano vertiginosamente i corpi dei protagonisti e li distanziano, e le inquadrature ricercatissime che da questi corpi finiscono sempre per essere calamitate.
Soprattutto resta l'essenza del cinema: l'immersione totale nel persistente buio scaldato solo dal calore/colore di una fiamma, spesso unica fonte di luce sulla scena; la rappresentazione del corpo e l'insistere sui dettagli fisici soprattutto di lei (quasi si ricorda a memoria la posizione dei suoi tanti nei); lo scavo nell'anima; il silenzio avvolto da una musica sottile e corrosiva; alcune parole icastiche, alcune scene ed immagini particolarmente potenti e al limite dell'astrattismo, attorno alle quali si addensa tutta la storia, come avviene con la polvere d'oro raschiata dalle pareti del laboratorio e trasformata in lingotti: il corpo di Sonia percorso più e più volte dalla macchina da presa, sdraiato accanto a uno scheletro che ne mima la postura e che sotto lo sguardo di Vittorio assume un carica erotica vitalissima; Sonia che, nascosta, sta tutta dietro un esile tronco d'albero, immagine che, sottolineata da una variazione gioiosa dell'unico splendido tema musicale, convince Vittorio ad amare la donna, non abbastanza magra, ma potenzialmente in grado di assumere la forma della bellezza.
Garrone mantiene al film un ritmo pacato, nonostante sia costruito sulla violenza, e lo permea di un'atmosfera cupa in cui il suo sguardo, libero da moralismi e notazioni di natura pseudo-psicologica, si muove implacabile, fin quasi a voler attraversare la pelle, entrare nella carne, fra le ossa dei suoi personaggi.

Quando la tragedia si compie, sono ancora una volta solo due corpi, la testa rasata di lui e la nudità immersa nel buio di lei, a rimanere in campo, insieme alle parole "non posso lasciarti andare".

 


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