Carnage (il dio della stupidità) PDF 
Umberto Ledda   

Ci sono quattro borghesi in una stanza che si azzuffano
Quello che conta in Carnage (ultimo film di Roman Polanski, presentato fra applausi e ovazioni un po’ isteriche all’ultimo festival di Venezia, tratto in maniera fedelmente teatrale dalla commedia Il dio del massacro di Yasmina Reza, eccetera eccetera), non è il messaggio. Ché pure il film ce l’ha, un messaggio, e anche chiaro e piuttosto esplicito, almeno in apparenza, ed è più o meno questo:  possiamo far finta di essere civilizzati quanto vogliamo ma alla fine siamo tutti delle bestie. In altre parole: sotto il buonismo e il progresso civile, gli uomini rimangono adoratori di quel dio del massacro (carnage, da cui il titolo) e della prevaricazione che accomuna tutti gli esseri viventi dotati di volontà. Se fosse una questione di messaggi e di contenuti occorrerebbe ammettere che era da Fritz Lang che il cinema aveva dimostrato, in termini di analisi sociopsicologica della civiltà occidentale, di saper fare di meglio e con maggiore lucidità. (Fra l’altro, a proposito di contenuti, di civiltà e di ipocrisie, è facile vedere Carnage come una diretta emanazione degli stati d’animo dell’ultimo periodo di Polanski, trovatosi di nuovo in mezzo alle annose questioni sessuali che lo riguardano, fra estradizioni, galera e fuoco incrociato dei giornalisti. È facile immaginare Polanski, che proprio pulito non si deve sentire, che prova ad autoassolversi e si ripete: “Ma nemmeno voi siete puliti!”. In pratica, un vecchio di successo che abbaia contro quelli che gli danno del pedofilo. Da cui il nichilismo e la gioia un po’ isterica con cui si diverte a menar botte e a umiliare i suoi protagonisti. È molto probabile che questo sia uno degli elementi che lo hanno portato a girare proprio questo film e a girarlo proprio in questo modo. Però è sempre squallido affrontare un film dal punto di vista delle miserie umane e legali del signore che ne cura la regia. Fortuna che Carnage si regge da solo e non è necessario farlo).

Non è questione di messaggio e non è nemmeno questione di narrazione, di storia. Carnage è fedele alla sua origine teatrale, di cui mantiene l’unità di tempo luogo e azione, e, insomma, è un film di quattro tizi che parlano per un’ora e mezza in un appartamento di New York. La trama è pretestuosa: due bambini litigano e finisce a bastonate / i genitori si incontrano per le scuse di rito e per questioni assicurative / si odiano da subito ma vogliono salvare le apparenze e non perdere la faccia / complice una bottiglia di whiskey, finisce che invece la faccia la perdono di brutto. La struttura è di quelle a spirale (che piacciono da sempre a Polanski, così come non sono una novità la matrice teatrale e la costruzione puramente verbale di un film), che si avvolgono verso un climax evidente fin dopo dieci minuti, segnata solo dai cambi di schieramento nella guerra dialettica: all’inizio coppia contro coppia, poi maschi contro femmine, alla fine tutti contro tutti, in un necessario quanto ovvio processo di imbarbarimento e di isterismo. Infine, Carnage non è nemmeno una questione di messinscena e di regia, almeno non nel senso cinematografico del termine. Ovvio, pretendere da Polanski una gestione impeccabile del ritmo e delle inquadrature è appena il minimo, e non è mai semplice rendere appetibili quattro tipi che fanno gli isterici per un’ora e mezza in un soggiorno. Ma l’impostazione drammaturgica (quattro individui in una stanza con sporadiche puntate in bagno e sul pianerottolo)  lascia poco spazio all’invenzione, a parte qualche ricamo sui primi piani o i movimenti di macchina. Che ci sono e sono resi con grazia e intelligenza, ma non è certo questo il punto che rende Carnage il film affascinante e adorabile che è. È una questione più sottile, di sfumature.

“Carnage è un capolavoro” (cit.)
Un sacco di gente – giornalisti blasonati, perlopiù – ha detto che Carnage è un capolavoro. Essendo davvero un sacco di gente, e appartenendo questa gente al seguito mondo del giornalismo televisivo, si è creato un curioso effetto mediatico per cui al mercato sentivi le massaie che parlavano fra loro e dicevano “devo andare a vedere il film di Polanski, dicono che è un capolavoro”. Insomma, un hype strano, capace di uscire dalla cerchia comunque ristretta di quelli che sanno chi è Roman Polanski. Molto probabilmente, in sala, un sacco di gente sarà rimasta delusa perché davanti non aveva Il Film Della Vita.  Carnage non è un capolavoro, ma non è colpa sua. Non lo è non perché abbia dei difetti (ne ha, comunque), ma perché non pretende di esserlo: è un film minuto, circoscritto e monolitico. Non le spara grosse, le profonde verità sull’uomo che offre sono facilotte e scontate, e soprattutto non sono il vero punto, nonostante il titolo. Carnage non vuole essere un capolavoro ed, essendo un film riuscito, non lo è. Vuole, al più, essere un piccolo film di dialoghi che possibilmente facciano ridere facendo sentire in colpa lo spettatore per il fatto di ridere. Un film comico stronzo quanto raffinato, un film di sfumature e di cesello:  da questo punto di vista è quasi perfetto. Quasi perché i suoi difetti li ha, e si notano molto proprio perché è evidente che si puntava alla perfezione. Ma qualcosa nella recitazione di Jodie Foster non funziona, lei è bravissima, lo è sempre stata, e anche in questo caso non si può dire il contrario, ma ad un certo punto urla davvero troppo e dal grottesco si sfora nel ridicolo. Non che Carnage sia un film di verosimiglianza, anzi, tutto è sopra le righe, eppure la Foster riesce ed essere sopra le righe rispetto al sopra le righe, un sopra le righe al quadrato, in pratica, che infastidisce e distrae, e lascia percepire la caratterizzazione del ruolo, spezzando la willing suspension of disbelief. Come se Polanski le avesse detto: esagera; e lei, volendo fare la prima della classe, si fosse messa in testa di dimostrargli quali nuovi livelli può assumere il concetto di esagerazione in campo recitativo. E questo disturba, come disturbano alcuni passaggi della progressione dialettica. D’accordo, Carnage è un film dall’incedere kafkiano, e il gioco è proprio quello di mettere insieme due coppie in un appartamento, con i padroni di casa che caccerebbero volentieri gli ospiti e gli ospiti che vorrebbero andarsene il prima possibile, e fare sì che in un modo nell’altro non riescano mai a smettere di litigare. Ed è anche vero che i quattro personaggi sono tutti degli imbecilli. Ma ci sono istanti in cui si sono appena detti di tutto e si crea un varco. Tutti rifiatano un attimo, è il momento giusto, non c’è nessun intervento esterno che li obblighi a rimanere insieme ancora. Possono separarsi. E allora, invariabilmente, uno dei quattro se ne esce con una qualche provocazione del tutto gratuita, detta così, solo perché il giochino di Polanski possa continuare.

Il dio della stupidità
Carnage
è uno di quei film che bisognerebbe guardare tre volte per notare i dettagli e i particolari, cosa fra l’altro abbastanza facilitata dal fatto che dura pochissimo e che fa ridere. D’altra parte, in un film in cui l’unica azione è una tizia che vomita non è che ci sia molto a disposizione, a parte i dettagli, di cui parlare. Dettagli e recitazione. Nel cinema bisognerebbe parlare il meno possibile di attori: in teoria dell’attore ci si accorge di più se sbaglia che non se fa tutto bene, e più un attore è bravo più lo spettatore lo confonde con il suo personaggio e penserà semplicemente di aver di fronte un bel personaggio. In Carnage però gli attori sono tutto, andando anche oltre i loro personaggi. In fondo, i quattro personaggi non si distaccano di molto dagli stereotipi comici della borghesia statunitense, di cui sono un rapido bignamino. Le programmatiche differenze fra loro sono così esplicite che è evidente il tentativo non tanto di costruire personaggi ma di creare una sorta di tavolozza che vada a simboleggiare la classe medioalta americana, nella sua interezza. In ordine di prestigio sociale, dal basso in alto, c’è il padre del bambino bastonato (Michael/Reilly), a rappresentare l’americano benestante medio, un individuo bolso, ignorante e patatoso, che ama la mamma e abbandona per strada il criceto del figlio senza pensarci più di tanto. Uno che per amor di pace cerca di mediare fin quando è possibile, di solito dando ragione a tutti a prescindere da quello che dicono. Sua moglie (Penelope/Foster) è la campagnola che se la tira da signora, il prototipo della frustrata che per evitare di accorgersi di quanto la sua vita non le piaccia si fa piacere l’arte moderna (che probabilmente non capisce), tenta di fare la scrittrice e piange per i bambini del Darfur o per qualsiasi altra questione umanitaria che abbia avuto abbastanza pubblicità per arrivare fino alle sue orecchie. I genitori del bambino che bastona vanno invece a illustrare la parte upper dell’upper class. La madre (Nancy/Winslet) è una professionista avviata, ipocrita, rigida, che agisce come se stesse recitando la storia della sua stessa carriera.  Suo marito (Alan/Waltz) rappresenta invece il culmine della borghesia americana, il Vincente: avvocato, succube del blackberry, è anaffettivo per vocazione, e gongola nel mostrare agli altri il proprio dilagante cinismo. Forse è orgoglioso che suo figlio abbia bastonato l’altro, ma più probabilmente non gliene può fregare di meno. L’unica cosa che li accomuna, e che per traslato vorrebbe accomunare l’intera borghesia americana, è una spettacolare carenza di felicità. Con una tale carrellata di idioti, non c’era molto da fare per Polanski e i suoi attori, se non svaccare. Il climax caricaturale procede man mano col passare del minutaggio, e i quattro attori competono l’uno con l’altro cercando di trovare la mossa più sopra le righe possibile: Jodie Foster, prima di dare una nuova definizione al termine overstatement, se la gioca con tutta una serie di sguardini disapprovatori e di sorrisi indignati e goffezze motorie (odia la coppia più upper class di lei ma li teme e ne patisce la presenza). Reilly se ne sta abbastanza calmo, spendendo le energie nel dare una statura decente a un personaggio ributtante, mentre la Winslet lavora costantemente a rendere chiara l’idea che non è lei che sta recitando benissimo ma in maniera un po’ rigida, ma è il suo personaggio. Waltz, da parte sua, decide di svaccare fin dall’inizio, si inventa mossette e coglionerie, e praticamente rifà il personaggio di Hans Landa che aveva in Inglourious Basterds, e riesce a far sembrare, al confronto, verosimile e sottocaratterizzato un personaggio inventato da Tarantino. Ecco, il punto di Carnage è guardare questi quattro attori che si divertono e fanno cose che negli altri film non gli avrebbero permesso di fare. La mossetta cretina  di Waltz quando si fa offrire da bere, il suo catalogo di facce divertite, la faccia asimmetrica della Winslet ubriaca, la coda tra le gambe di Reilly quando ammette che gli fanno paura i criceti.

E poi c’è il cesello dei tempi, delle battute. Se la struttura del film è semplice e monotona, seguendo il semplice valzer combinatorio delle alleanze fra i quattro (prima coppia contro coppia, poi maschi contro femmine eccetera, praticamente la struttura di una soap opera ma con gli insulti al posto della copula), il gioco dialettico è formidabile proprio nella sua pretestuosità, che ammanta il tutto in un’atmosfera di ridicolo. Si toccano più o meno tutti i grandi temi della società contemporanea, dall’ipocrisia alle guerre in Africa all’aggressività all’arte moderna al Ku Klux Klan all’idea stessa di civiltà, ma l’atteggiamento è iconoclasta e infantile (nel senso buono), e si percepisce chiaramente non tanto il desiderio di abbozzare un discorso satirico, quanto la gioia liberatoria di parlar male delle leggi non scritte della cosiddetta civiltà, così, solo per il gusto di parlarne male. Il gioco delle alleanze e dei conflitti fra quattro persone che condividono unicamente ipocrisia e desiderio di essere percepiti in maniera positiva fa sì che ognuno rimproveri questa ipocrisia negli altri, finendo con il disgregare la propria stessa immagine di sé. Un casino, insomma, fra contraddizioni e repentini cambi di opinione, un casino a cui a Polasnki non interessa più di tanto dare un ordine, preferendo lasciare i suoi personaggi a sguazzarci dentro fino a non capirci più niente. L’interscambiabilità fra accusatori e accusati, fra carnefice e vittima è sempre stata una delle cose in cui Polanski ha dato il meglio, ma qui è più forsennata e leggera che in passato, e i ruoli stessi si svuotano di significato fin dall’inizio, lasciando, appunto, la pura dialettica del litigio a farla da padrone, un litigio immotivato e caotico più simile a una rissa fra alcolizzati che a una guerra. Carnage è tutt’al più la farsa di una guerra, dove le armi sono il vomito e la cattiveria gratuita e gli individui si battono per un catalogo di Kokoschka o per un cellulare, le battaglie sono scambi di opinioni sulle torte di mele e pere e il campo di battaglia è un divano. Carnage è un film futile, una parodia. Non c’è vera sofferenza, ma solo la recitazione artefatta della sofferenza (“è la giornata peggiore della mia vita”, dicono tutti, ma è poco più che una battuta d’occasione). Non c’è nemmeno vero disprezzo da parte di Polanski nei confronti dei suoi personaggi, quanto solo una divertita superiorità, che è ciò che essi meritano. Carnage non tratta della profonda natura bestiale degli uomini, tratta di uomini che ne parlano fino allo sfinimento senza rendersi conto di quanto sono ridicoli e di quanto la facciano lunga su un avvenimento sostanzialmente inesistente, finendo per rovinarsi la vita davvero e rovinare matrimoni socialmente inoppugnabili. Durante i titoli di coda, alla fine, i figli delle due coppie si parlano e giocano insieme: quello che Carnage vorrebbe esprimere, alla fine, non è il fatto che gli uomini sotto sotto sono delle bestie, ma il fatto che sono degli imbecilli. E il dio del massacro che secondo Waltz gestisce le questioni umane alla fine si rivela un semplice subalterno di un più potente dio della coglionaggine e della stupidità.

 


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