Colpo secco PDF 
Marco Doddis   

Visto oggi, a più di trent’anni dalla sua realizzazione, Slap Shot (dalle nostre parti Colpo secco) di George Roy Hill appare come un oggetto quanto meno curioso. Sembra di contemplare un pezzo unico, discrasico nei suoi pregi e difetti da renderlo difficilmente contestualizzabile in un percorso di lettura canonico. È un’originalità palese su due livelli: innanzitutto, all’interno della filmografia del suo autore, quel Roy Hill tanto amato dal pubblico quanto snobbato dalla critica (è avvilente constatare come, allo stato attuale delle cose, non esista in Italia un approfondimento di ampio respiro su colui che, tanto per dirne una, sbancò l’Academy nel 1974 con i sette Oscar de La stangata. Nel panorama critico internazionale, un punto di riferimento imprescindibile rimane il lavoro dell’americano Andrew Horton (1)). Poi, aspetto ancor più interessante, si tratta di una pellicola atipica nel calderone del cinema sportivo in generale. Non ci sono eroi. Non ci sono titoli da difendere o da conquistare (o meglio, il titolo c’è ma non è mai percepito dai protagonisti o dallo spettatore come un agognato oggetto di valore). Non ci sono momenti romantici o epici, né evidenti implicazioni politiche, né guizzi tecnico-agonistici. Insomma, la canonica liturgia dello sport è decisamente accantonata. E allora, di che stiamo parlando?

In breve. Nella cittadina di Charlestown, profonda provincia a stelle e strisce, esiste una squadra di hockey su ghiaccio, i Chiefs, che naviga in cattive acque. Il team è sulla via del fallimento e l’unica speranza pare essere quella di vincere il campionato per riportare l’entusiasmo nella piazza demoralizzata e per attirare i capitali di qualche facoltoso acquirente. La vicenda ruota attorno alla figura di Reggie Dunlop, il player-manager con le fattezze di un meraviglioso Paul Newman. Reggie, uomo di mezza età in crisi con la moglie Francine, partorisce l’idea di trasformare il suo gruppo di mediocri giocatori in una banda di picchiatori, allo scopo di fomentare le platee. In più, per tenere alte le motivazioni della squadra, fa credere a tutti di aver trovato in Florida i nuovi compratori. In realtà, non c’è nessuna speranza: come rivela anche la cinica proprietaria Anita, preoccupata solo del tornaconto economico, i Chiefs sono destinati a fallire. Non prima, però, di aver disputato un ultimo match contro i Syracuse Bulldogs, che varrà il più incredibile dei trionfi.

La meccanica del film è piuttosto lineare: un briccone, tanto adorabile e poco cresciuto, usa ogni mezzo a disposizione per portare il suo gruppo di appartenenza (una squadra, in questo caso) al conseguimento di un obiettivo collettivo. L’orologiaio Hill arricchisce l’esile congegno con alcuni dei suoi marchi di fabbrica: l’esaltazione dell’amicizia virile, il calibrato mix di commedia e violenza, una galleria di personaggi che spesso incontrano problemi nell’affrontare la realtà. Nonostante le premesse, il risultato è tutt’altro che eclatante, in ragione proprio di quegli elementi di originalità che avrebbero richiesto una migliore amalgama nel collaudato tessuto. Le debolezze emergono innanzitutto sul piano della sceneggiatura, spesso rivelatrice di falle imbarazzanti: non si capisce, ad esempio, pur con il massimo sforzo, per quale ragione gli arbitri delle partite non provino nemmeno a sedare gli animi, facendo così degenerare gli incontri. Qualcuno ha tirato in ballo i fumetti e quella specie di divertissement tipico di questa forma mediale che renderebbe tutto accettabile. Vero, ma solo in parte: i fumetti, infatti, pur peccando spesso in verosimiglianza, mantengono una coerenza interna che Colpo secco conosce solo alla lontana.

Si badi al tono generale della pellicola e a quanto esso risulti contraddittorio. In principio si è dinanzi alla rappresentazione, rude ma sincera, di un popolarissimo sport americano, condita da un apparato verbale e visuale esuberante, verace, rozzo, privo di reticenze. Lentamente si scivola, senza la necessaria padronanza, in un discorso introspettivo per la verità piuttosto superficiale. È come se l’autore, che non a caso è stato etichettato come un “master of nostalgia”, tentasse di celebrare i genuini valori dello sport, l’“old-time hockey”, senza approfondire l’analisi dei personaggi dalla cui contrapposizione dovrebbe muovere un discorso di tal genere. In particolare, non è dedicata la necessaria attenzione al personaggio di Ned Braden (Michael Ontkean), il naturale controcanto di Reggie. Ned sembra l’unico a voler giocare, solo giocare, non ricorrendo a una violenza che è più spettacolo che momento di sopraffazione fisica. Senza apprezzare una sensibile crescita nel personaggio, lo troviamo improvviso protagonista nella partita finale, quando inscena uno spogliarello, grazie a cui i Chiefs vincono il confronto. Tutto finisce, diremmo teleologicamente, bene. Ma i dubbi permangono, anche perché, a ben vedere, Ned ha portato a termine il suo percorso narrativo utilizzando ai propri fini quel meccanismo dell’entertainment che egli stesso deplorava. Dunque non c’è stata una reale crescita per lui, ma solo un ardito e alogico balzo alla riconquista della moglie Lil.

La sensazione di incompletezza deriva proprio dalla presa di coscienza che il motivo chiave dell’opera non è la riflessione sulla violenza nello sport, quanto, piuttosto, su ciò che mette in moto quella violenza: lo spettacolo, appunto. D’altra parte, è la stessa sceneggiatrice Nancy Dowd a sgombrare il campo dai dubbi, confermando questa tesi. La Dowd, infatti, dichiarò che il suo obiettivo era mostrare come il livello di violenza presente nell’entertainment americano costituisse un ostacolo decisivo per la crescita, per la maturazione degli individui, specialmente maschi. Dunque, il focus è la società dello spettacolo, non la violenza, che di quella società è corollario. In questo senso, l’apertura del film è paradigmatica: in un’inquadratura decisamente televisiva compaiono un conduttore e uno degli Chiefs. Il giornalista invita il giocatore a mostrare al pubblico alcuni dei colpi più pericolosi che una mazza da hockey può assestare. È già un momento decisivo: è la televisione immediatamente sbattuta sul banco degli imputati. Non un caso, ovviamente. La tv, quel medium che finge di deplorare la violenza ma in realtà se ne nutre (il suddetto conduttore si esalta a più riprese nelle vesti di cronista proprio nei momenti delle zuffe), compare di continuo, è sempre lì, sullo sfondo della vicenda, con il suo sibilo monotono, ad accompagnare i viaggi degli Chiefs e la vita dei cittadini e tifosi di Charlestown. Addirittura, in una scena esasperatamente riuscita, troviamo i giocatori riuniti in un bar a criticare una soap opera. L’immaturità al potere.

Il più immaturo di tutti, Reggie, riesce a catturare la simpatia dello spettatore proprio perché fa un uso quasi romantico della violenza. Reggie è il Peter Pan dell’hockey, il paladino dello sport da strada contro i manager e gli affaristi. Inoltre, in lui si produce un cambiamento percepito dal pubblico come naturalmente positivo: con una forzatura simile a quella che riguarda Ned, l’allenatore riesce a comprendere quanto la violenza sia deleteria. “La violenza sta uccidendo questo sport”, sentenzia nel discorso precedente l’ultimo incontro, invitando i suoi ad abbandonare la consueta strategia delle mazzate. Il discorso di Newman allo spogliatoio è una delle cose migliori del film. Un po’ per l’autorità del personaggio e un po’ per il carismatico profilo del divo che lo interpreta, può essere considerato l’antesignano di un altro grande monologo del cinema sportivo, quello di Tony D’Amato/Al Pacino in Any Given Sunday (Ogni maledetta domenica, 1999). I contenuti sono diversi, ma l’appeal è molto simile.

Insieme alla performance di Paul Newman, Colpo secco verrà ricordato proprio per i suoi aspetti più corrivi, quei tratti leggeri e scanzonati  su cui, sbagliando, Roy Hill non ha voluto insistere troppo, cercando di relegarli sul piano del marginale colore fumettistico: le parolacce (all’epoca della sua uscita, il film stupì proprio per la gran mole di espressioni oscene), la caratterizzazione dei tifosi (in una scena, se ne vede addirittura uno con un elmo delle SS), i tre Hanson Brothers, deliziosi nerds della pista con una grande abilità nel randellare gli avversari, lo spogliarello di Ned che, estrapolato dal suo contesto, rimane un pezzo di cinema ancora oggi piuttosto esilarante. Un cinema, quello di Roy Hill, che ormai appartiene al passato, ma di cui si ha nostalgia anche nelle sue manifestazioni meno alte.

Note:
(1) Andrew Horton, The films of George Roy Hill, McFarland & Company, London 2005.

TITOLO ORIGINALE: Slap Shot; REGIA: George Roy Hill; SCENEGGIATURA: Nancy Down; FOTOGRAFIA: Victor J. Kemper; MONTAGGIO: Dede Allen; MUSICA: Elmer Bernstein; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1977; DURATA: 120 min.

 


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