Enter, ovvero entrare. Un termine dai connotati macroscopici, che possono comprendere mondi apparentemente diversi. Dalla filosofia heideggeriana sull’esistenza (“entrare” come essere gettati nel mondo) fino alle nuove frontiere della sensorialità interattiva (“entrare” nel virtuale, magari premendo il tasto Enter della tastiera). Gaspar Noé, con Enter the Void, fa sua la pluralità concettuale del termine e costruisce un film-saggio iperbolico in cui dipana molteplici piani di discorso, relativi a temi quali lo sguardo, lo spettatore e il cinema, utilizzando come fil rouge proprio il concetto di “entrare”, sia esso varcare, oltrepassare, penetrare. Crea così un film metalinguistico, che distorce, “sforza” continuamente l’immagine filmica fino al limite, costringendo lo spettatore a un vero e proprio tour de force scopico. Noé “immerge” costantemente lo spettatore nel film, lo fa “entrare” prepotentemente in una narrazione che si caratterizza per l’uso dinamico della ripresa in soggettiva, in prima persona, e in semi-soggettiva; oppure attraverso lo sguardo “a volo d’uccello” dell’anima del protagonista.
Un film sicuramente eccentrico, dunque, che esce in Italia con ben tre anni di ritardo e con una distribuzione assolutamente discutibile - sole nove copie in tutta la Penisola -, a riprova del sospetto con cui viene guardata l’opera di questo regista francese. Già con il precedente Irréversible, infatti, Noé destò scandalo e sdegno, sia per le scelte contenutistiche che formali. Chi scrive, piuttosto, è colpito dall’interesse del regista nel proporre soluzioni narrative ed estetiche assolutamente inusuali; e dal suo porre ancora una volta - in un panorama sempre più sterile - un discorso ontologico e fenomenologico sullo statuto dell’immagine filmica. Utilizzando, per di più, una trama alquanto convenzionale. Enter the Void è la storia di Oscar, un giovane dedito all’uso di sostanze stupefacenti che vive con l’amata sorella Linda in una Tokyo surreale illuminata dai neon. I due sono uniti da un profondo amore, ma la loro condizione sociale li costringe a spacciare (Oscar) e prostituirsi (Linda). Il pericoloso lavoro di Oscar lo porta presto alla morte. La sua anima inizia così a vagare per la città, osservando gli accadimenti successivi alla sua morte, e, infine, reincarnandosi nel figlio di Linda. Enter the Void prende spunto dal Libro tibetano dei morti - ultimo libro che legge Oscar prima di morire -, secondo cui l’anima di chi non è ancora pronto per lasciare il mondo inizia a vagare, tra passato e futuro, finché non trova un nuovo corpo in cui reincarnarsi.
Il film utilizza dunque questi spunti narrativi per costruire un ingegnoso apparato teorico e metalinguistico. I ricordi diventano i flashback che permettono allo spettatore di ricostruire la vita di Oscar e di Linda. Così come i vari “passaggi di esistenza” di Oscar sono mezzi per sperimentare diverse forme di narrazione, di cui l’ultima, quella dell’anima vagante, è forse il risultato più particolare. Affiancandosi così alle teorie postmoderne del cinema come “bagno sensoriale”, Noé immerge sempre di più lo spettatore nell’universo diegetico del film. Gli esasperati plongée e contro-plongée, i virtuosistici carrelli aerei, la steady-cam, e qualunque tipo di effetto digitale, vengono impiegati per creare un’atmosfera unica, a cavallo tra l’esperienza onirica e l’alterazione psicofisica provocata da uno stupefacente. Il film gioca sovente con questa sovrapposizione, utilizzando gli stessi processi onirici che caratterizzano i sogni (la condensazione e lo spostamento), alterando o deformando gli elementi del racconto.
Ma Enter the Void è anche un film che guarda al cinema e alla sua storia. I richiami sono molteplici: dalla psichedelia astratta di 2001: Odissea nello spazio ai virtuosismi del primo Lars von Trier (L’elemento del crimine); dalla mobilità della macchina da presa di Sam Raimi e Wim Wenders (Il cielo sopra Berlino) alle fascinazioni deformate e surreali dell’Eraserhead di David Lynch (il continuo “penetrare” luci accecanti e buchi di ogni tipo, in bilico tra l’onirico e il sessuale). E ancora: il lavoro sull’immagine, debitore di Alexander Sokurov, e il barocchismo esasperato di Brian De Palma. Un “viaggio” estremo che si chiude nichilisticamente con la parola “Void”, che riempie lo schermo a lettere cubitali. Un monito, forse, per dirci che questo viaggio - il cerchio della vita, che ricomincia, come in Kubrick, con un feto - è solo un eterno ruotare intorno al nulla. A noi quindi non resta che entrare (ancora una volta) nel vuoto.
Titolo originale: Enter the Void; Regia: Gaspar Noé; Sceneggiatura: Gaspar Noé, Lucile Hadzihalilovic; Fotografia: Benoît Debie; Montaggio: Marc Boucrot, Gaspar Noé, Jérôme Pesnel; Scenografia: Jean-Andre Carriere, Kikuo Ohta; Costumi: Nicoletta Massone; Musiche: Thomas Bangalter; Produzione: Fidélité Films, Wild Bunch, BUF; Distribuzione: BIM; Durata: 161 min.; Origine: Francia/Germania/Italia/Canada, 2009
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