Gli abbracci spezzati PDF 
Anna Barison   

Pedro Almodòvar esplora il potere dello sguardo cinematografico consegnandoci un’opera intrinsecamente simbolica sul rapporto tra cinema e vita, densa nel suo evolversi e capace di riaccendere il suo inconfondibile stile sanguigno, dove le passioni che agitano l’animo umano sono il motore dello sviluppo narrativo e la causa primaria della sua poetica.

La vicenda si presenta inizialmente lineare, per poi virare verso la ricerca di espedienti narrativi che suggeriscono più livelli interpretativi. Nel fare questo Almodòvar inserisce anche differenti salti temporali, attraverso i quali riassembla tutta la trama, che nel suo svolgersi appare sempre più complessa e stratificata. Mateo Blanco (Lluís Homar) è stato un regista di grande successo. Oggi quella fama l’ha abbandonato e con essa la sua capacità di vedere. Infatti, per via di un incidente, è diventato cieco, e questo suo handicap l’ha portato a distaccarsi dal mondo e dal suo passato. Perfino la sua identità è cambiata. Ora firma romanzi, soggetti e sceneggiature con lo pseudonimo Harry Caine, ma non ha più diretto nessun film. È ancora un uomo affascinante e ricco di talento, ma sa di avere un grande bisogno delle cure e dell’affetto della produttrice Judit e di suo figlio Diego. La donna conosce perfettamente il tragico triangolo che molti anni prima ha visto coinvolto Mateo, il ricco Ernesto Martel e la magnifica Lena. Harry deciderà di narrarlo anche a Diego. E così, compiendo un salto temporale negli anni Novanta, ci viene narrato l’amore sofferto tra Lena e Mateo, una passione vittima delle circostanze sfavorevoli. Il produttore del film di Mateo Chicas y Maletas era Martel, un ricco imprenditore che conviveva con la sua amata Lena, un’attrice che non aveva mai sfondato e che per questo era stata inserita nel progetto cinematografico. Tra Mateo e Lena esplode subito la passione, ma, per evitare che Martel neghi i finanziamenti e faccia interrompere le riprese, Lena decide di star accanto all’uomo che non ama. Accecato dalla gelosia, Martel umilia Lena, che fino alla sua morte rimarrà attaccata alla speranza di poter vivere serenamente il suo amore con Mateo.

Pedro Almodòvar riprende il discorso interrotto con Volver plasmando una storia intensa, a metà strada tra un melodramma passionale e il noir più cupo, dove ancora una volta è una donna – Penelope Cruz – a rappresentare la dimensione terrena in cui far confluire tutti gli aspetti evocativi e le suggestioni artistiche del regista spagnolo. Se con Volver la figura femminile era la rievocazione di Sophia Loren ed Anna Magnani, in una riuscitissima estetica dell’emulazione, ottenuta grazie anche all’espressività dinamica di Penelope Cruz, questa volta la stessa attrice spagnola, per mano del suo “artefice”, viene rappresentata con le sembianze di Audrey Hepburn e Marilyn Monroe. Lena, infatti, è un’attrice che per esigenze di copione si trasforma e rivive negli occhi del suo regista Mateo/Pedro, diventando il paradigma inseguito dall’autore, l’archetipo dello smisurato attaccamento del regista all’iconografia del passato, che diventa a sua volta centrale nell’impianto drammaturgico per decodificare lo sconfinato amore e l’infinita gratitudine di Almodòvar nei confronti del cinema classico. E così, un po’ per volta, entriamo anche noi spettatori nella magia dello schermo, dentro i continui riferimenti che il regista spagnolo ama disseminare qua e là per tutta la pellicola. Le citazioni, come in un’orchestra sinfonica, si alternano andando da Tonino Guerra ad Alfred Hitchcock, dal noir di Louis Malle (Ascensore per il patibolo con Jeanne Moreau) a Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, attraverso l’emblematica sequenza finale dell’abbraccio – un gesto che ritorna – dei due protagonisti, segno di un’unione ritrovata. Lena e Mateo osservano questa scena avvolti in una distesa intimità, smascherando uno stratagemma meta-cinematografico che svela agli spettatori i meccanismi stessi della settima arte: il gioco viene così palesato, lo spettatore entra direttamente in contatto con la finzione cinematografica, diventando egli stesso protagonista del discorso filmico.

Il processo meta-cinematografico è forse ancora più interessante nella parte finale, quella in cui Mateo rimonta il suo film Chicas y Maletas. La costruzione delle scene, i dialoghi al limite del grottesco, le atmosfere teneramente kitsch, dominate da colori vividi e accecanti, che sono il marchio distinguibile dell’estetica di Almodòvar, sono soprattutto il chiaro rifacimento di un’altra pellicola, questa volta dello stesso regista: Donne sull’orlo di una crisi di nervi. In questa famelica ossessione di assorbire il cinema, di fagocitarlo e di risputarlo fuori sotto forma di una creazione a cui infondere la vita sul grande schermo, Almodòvar sfiora l’autoreferenzialità più sfacciata e il dilettevole compiacimento, un’attitudine necessaria al regista per relazionare il cinema alla vita, il desiderio e la passione alla realtà del quotidiano. Una delle scene madri, che meglio rappresenta questa scelta, è quando Martel scopre il tradimento di Lena attraverso le immagini mute del documentario di Chicas Y Maletas, che il figlio aspirante regista sta girando. Martel osserva il girato senza sonoro, facendo tradurre il labiale per capire cosa si stanno dicendo i due amanti. Scopre così un amore segreto e intenso, portando alla nostra memoria il cinema muto, dove il melodramma passionale era il genere principe. Il cinema diventa così sia la causa primaria che il disvelamento di un amore, l’unico strumento in grado di aprire gli occhi sulla verità, palesando il raccordo tra realtà e finzione, tra cecità e sguardo. Un’unione calzante tra arte e vita che prende forma grazie alle esperienze dei protagonisti e alla loro sfortunata passione.

Passione che, ancora una volta, definisce i protagonisti e li modella con sempre maggiore attenzione. Un approfondimento dell’animo umano che, con il tempo e con i suoi ultimi lavori, il regista ha saputo rendere personale, autentico e sofferto, ricercando costantemente una riflessione esistenziale condivisibile e universale. Tuttavia, a fronte di una sceneggiatura ambiziosa e di una magistrale messa in scena, affiora la sensazione che questa ansimante ricerca della perfezione possa tramutarsi in freddezza, in distacco emotivo, come se non ci fosse l’intenzione di rischiare, di lasciarsi trasportare da un flusso di energia, trattenendosi per la paura di uscire dai binari di un’appropriazione del “bello” fin troppo manichea. Nelle scenografie, nelle luci, nei colori, nei costumi e nelle musiche, tutto è impeccabilmente definito in un rigore espressivo sublime e anchilosato allo stesso tempo, che mette in secondo piano la tensione drammaturgica e quella commozione che dovrebbe far vibrare le corde emotive dello spettatore. Ma oltre a questo virtuosismo formale, l’autore si preoccupa di sovraffollare con tematiche colte il suo immaginario: l’invasione di campo tra realtà e finzione con le suggestioni meta-cinematografiche, il  visibile e l’invisibile che si rapportano all’occhio cinematografico e alla cecità, così come l’idea del doppio – Mateo Blanco è il replicante di Pedro Almodòvar, ma senza per questo confondersi con esso –, tendono a soffocare il nobile intento di omaggiare la settima arte. Nel rutilante accostamento di questi elementi, il potere dello sguardo, e quindi del cinema, lascia allo spettatore la sensazione di aver perso l’orientamento, di confondersi nei meandri di in una trama barocca, e così come Mateo, annulliamo la nostra capacità di vedere chiaramente, lasciandoci pur sempre stupire da un autore che per i suoi eccessi incanta e opprime allo stesso tempo.

TITOLO ORIGINALE: Los Abrazos Rotos; REGIA: Pedro Almodóvar; SCENEGGIATURA: Pedro Almodóvar; FOTOGRAFIA: Rodrigo Prieto; MONTAGGIO: José Salcedo; MUSICA: Alberto Iglesias; PRODUZIONE: Spagna; ANNO: 2009; DURATA: 129 min.

 


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