Chi è Max Fischer? Un secchione o un demente? Un genio o uno sfigato? Un uomo già formato e con davanti un brillante avvenire o un ragazzetto che ancora non ha capito nulla della vita? Max Fischer è un po’ di tutto questo. Fluttua in una provincia americana disegnata con colori pop e contorni bizzarri e surreali, ha 15 anni ma in certi momenti ne dimostra molti di più, è il migliore e il peggiore allo stesso tempo, un piccolo Dio e un inguaribile nerd, un ingenuo e uno scaltro, un matto e un peluche bisognoso d’affetto. È in fondo il simbolo di tutto il cinema di Wes Anderson: sgraziato, ondivago, esitante, straniante, luccicante. Un oggetto confuso e indistinto, una macchia che risplende in mezzo a tante altre macchie, una barchetta a veli spinta nella violenza della tempesta, ma capace di tenersi a galla con costanza e tenacia.
Rushmore, secondo film di Anderson, scritto con l’amico Owen Wilson, ha in sé i prodromi del successivo I Tenenbaum, ed è un tentativo di mettere in mostra un universo in cui il divertimento e la malinconia paiono cimentarsi in una gara a oltranza verso la riuscita di un sentimento di non-appartenenza. È infatti difficile immedesimarsi nei personaggi che in essa concorrono, in virtù proprio della loro estraneità alla caratterizzazione ormai standardizzata e imperante di tanto cinema americano. Ma è in fondo un bene, perché ci troviamo di fronte a ruoli che rifuggono dagli stereotipi e tentano di dare vita a soggetti nuovi e originali. Max Fischer è il migliore, nel creare miriadi di attività extrascolastiche, ed è il peggiore, nel mero rendimento accademico. Vive per la Rushmore, e ne viene cacciato. Conosce il miliardario disilluso Herman Blume e ne ricava prima quasi un secondo padre, poi un acerrimo nemico. Incontra la professoressa Cross, vedova inconsolata, e in lei vede quell’amore che non ha mai conosciuto, ma che per ora gli può solo essere negato. Sono proprio questi due personaggi, ben personificati da Bill Murray e Olivia Williams, a fungere da perfetto corollario per il mondo bizzarro di Anderson. Entrambi soli, profondamente soli, alla ricerca di un nuovo scopo nella vita, e troppo severi verso se stessi. Odiano la propria persona, si avvicinano e poi si dividono, infine si rincontrano. Lei tira fuori le unghie e la tenacia, lui pare affogare nell’oblio di una vita disidratata e ormai vacua, riemergendo dalla palude solo un attimo prima che sia troppo tardi. In mezzo a loro Fischer, che senza più la sua amata Rushmore è costretto a compiere una rituale iniziazione verso l’età adulta, attraverso la vendetta, il rancore, la sofferenza, l’abbandono, l’umiltà, il coraggio di reagire che prima scompare e poi si riaffaccia. Un tentativo poco convinto di proseguire gli studi universitari in un’altra scuola, l’approccio al mondo del lavoro presso la bottega di barbiere del padre, la nostalgia per una madre che non c’è più, tanti progetti sontuosamente folli che talvolta falliscono miseramente e ogni tanto invece vanno a segno, il tentativo comunque mai sopito di emergere dalla mediocrità per elevarsi di fronte alla massa cialtrona. Lui, Blume e la Cross: un triangolo sentimentale pieno di spigolature, di sfumature, di allontanamenti e riavvicinamenti, per una giostra di altalenanti situazioni che solo nel finale trova (forse) il suo compimento e la sua risoluzione. Ma alla fin fine, del loro destino, poco importa: ciò che più conta è la rappresentazione di un mondo, quello di Anderson, che ha il coraggio di rifiutare i cliché, che risulta essere fastidioso e divertente allo stesso tempo, e che sa comunque dipingere con discrete intuizioni un’umanità errabonda proiettata verso un presente grigiastro e un futuro misterioso. In una costruzione di impianto meramente teatrale, scandito da tempi di ripresa e montaggio quasi sincopati, sulle note di musiche old style, va in scena un film che capolavoro senz’altro non è, in quanto esempio di un cinema d’autore che ancora fatica a trovare una propria limpida connotazione e fluidità di manovra. Però, insomma, vale la pena di (ri)dare un’occhiata a quella faccia da schiaffi di Max Fischer, l’adulto/bambino che alberga un pochino in tutti noi.
TITOLO ORIGINALE: Rushmore; REGIA: Wes Anderson; SCENEGGIATURA: Wes Anderson, Owen Wilson; FOTOGRAFIA: Robert D. Yeoman; MONTAGGIO: David Moritz; MUSICA: Mark Mothersbaugh; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1998; DURATA: 93 min.
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