Provincia meccanica PDF 
di Maurizio Ermisino   

Papà e figlio sono davanti a uno schermo spento. Hanno finito di giocare alla playstation ed è partito lo screensaver, quello con tanti tubi che si intrecciano. "Guarda bene, guarda oltre ai tubi, cosa c'è?" chiede il padre al figlio. "Ci siamo noi" risponde il piccolo vedendo la loro immagine riflessa nello schermo. Questo segmento suggerisce cosa avrebbe potuto essere, e forse non è, questo film: una storia sulla ricerca di una propria essenza, oltre tutti quei "tubi", intesi come "sovrastrutture" e costrizioni in grado di nasconderla, di negarla.

Siamo a Ravenna, la Ravenna industriale, angosciosa e claustrofobica di Deserto Rosso: anche qui c'è una donna in crisi, ma non è una borghese. Anzi, allontanandosi dalla famiglia e scegliendo di vivere fuori dagli schemi, dimostra di non voler appartenere a quel mondo: con il marito, operaio, due figli, un cane e un'iguana vive in povertà e fuori dagli schemi. Ma la sua vita ci appare per un momento sincera, vera. Succede però che un'assistente sociale, d'accordo con la madre, toglie ai genitori l'affidamento di una figlia. E qualcosa nella loro vita si rompe.

Mordini viene dal documentario, e si vede: il suo stile è distaccato e non invasivo, come quello di un documentarista (a tratti assomiglia a quello del Garrone di Primo amore). Si limita ad osservare i suoi protagonisti, a lasciarli vivere. E il gioco per un po' funziona. Ma poi ci si accorge che il film non approfondisce, non spiega, non risponde. Non capiamo, cioè, quali sono quei "tubi" che si intrecciano intorno ai nostri protagonisti impedendo loro di vedere se stessi. Non capiamo cosa li allontana dalla vita borghese, dai genitori di lei. Cosa interviene tra i due e manda in crisi il loro rapporto. Provincia meccanica perde insomma l'occasione per essere un interessante affresco sociale sulla nuova povertà, sulle convenzioni e sulle conseguenze di una loro sfida. Forse non voleva nemmeno esserlo, ma anche una storia più introspettiva non può prescindere da uno sguardo sul mondo circostante, che rimane troppo sullo sfondo. Rinunciare alle influenze dell'ambiente sui personaggi, infatti, significa far procedere la storia con espedienti forzati e sviluppi poco plausibili, da telenovela, come tradimenti e figli illegittimi, scenate e maghi cialtroni.

È un peccato, perché lo spunto era interessante e avremmo voluto seguire questa famiglia alle prese con delle situazioni più reali. Perché gli attori ce la mettono tutta: Valentina Cervi, troppo sottovalutata dal cinema italiano, è intensa e tormentata, e Stefano Accorsi abbandona i suoi personaggi da borghesia mucciniana per costruire un personaggio proletario, trasandato e irruento, alla Gian Maria Volontè. Perché pochi film italiani di recente hanno avuto una simile vetrina: presentazione al Festival di Berlino, distribuzione targata Medusa, notevoli investimenti per il lancio pubblicitario.

Il finale è ottimista, e cerca un tocco "autoriale", alto, ma ancora una volta stride con il tono iniziale del film. C'è dentro la voglia di non essere più un perdente, di smettere di andare piano e di iniziare a correre.

 


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