TFF 30/Rapporto Confidenziale PDF 
Ottavio Plini   

Rapporto Confidenziale è ormai noto al pubblico del TFF come vetrina delle nuove opere di genere, si tratti di grandi firme o figure alla prima o seconda esperienza di regia (una sorta di concessione da parte della cinefilia a tutto tondo del presidente Amelio, perché sono indiscutibili le riserve del suo predecessore Moretti come di molti altri festival nei confronti del cinema di genere). Quest’anno, in particolare, la co-direttrice Martini ha parlato della sezione come di uno specchio delle fobie e delle tensioni di un mondo occidentale messo a dura prova nei propri valori e nei propri meccanismi. Chiaramente, poi, vi ci sono finiti, come d'abitudine, anche quei due o tre nomi di qualità attesi dal grande pubblico: l’oramai popstar Rob Zombie, piuttosto che la figlia di David Lynch, o Sion Sono, che è stato protagonista di una retrospettiva qui appena un anno fa. E, ancora, nella lista abbiamo, sulla base della plurivoca interpretabilità della formula fornita dalla Martini, una serie di commedie che nulla hanno a che vedere con l’horror, ma che dovrebbero, almeno a parole, metterci a confronto con alcune tematiche importanti dell’esistenza occidentale e la sua difficoltà d’oggi di venirne a capo. C’è stato infine un gruppo di giovani che, con V/h/s, ha simulato una serie di episodi horror in stile Blair Witch Project, dando origine al momento della rassegna forse più fresco e divertente.

Di tutti i poc’anzi menzionati passeremo a occuparci più avanti. Per ora ragioniamo sulle benvenute commedie che, con la scusa che dovrebbero anch’esse fornire un riflesso delle nostre apprensioni più profonde, magari esorcizzandole, sono entrate in sempre maggior numero in un settore tradizionalmente appannaggio dei “film di paura”. Appartengono interamente allo stile della commedia, denunciamoli subito, Robot and Frank, Smashed, Thanks for Sharing, Shopping Tour e Wrong. Il primo della lista è il lungometraggio d’esordio di Jake Schreier, fino ad ora solo sceneggiatore, che è riuscito a coinvolgere nel suo lavoro attori del calibro di Liv Tyler, Susan Sarandon e Frank Langella (per chi non lo conoscesse, uno dei pochi, insieme a Christopher Lee e Richard Roxburgh, che abbia interpretato sia Dracula che Sherlock Holmes), abile nella parte del vecchio ladro rintronato che ritrova la voglia di sfidare i potenti grazie al suo robot di casa (destinato, dichiara quest’ultimo, a non sopravvivere ai futuri piani del vecchio “perché io sono un robot e sono cosciente di non esistere, mentre ero stato posto accanto a te per farti ritrovare interesse nella vita”). “Mind-body problems” appena sfiorati, il film conta più sull’effetto della commozione, poiché c’è il vecchio malridotto ma ci sono anche tante brillanti star (che formano la sua famiglia) che lo aiuteranno e gli staranno vicine più di quanto possa fare il robot, in compagnia del quale era tornato a elaborare diabolici piani. Il rapporto uomo-macchina viene risolto in maniera tutto sommato positiva, ottimistica, ma sicuramente banale.

Tra le commedie elencate, viene da associarne due relativamente riuscite e correlate al tema della dipendenza: in Smashed di James Ponsoldt, una giovane maestra elementare con marito alcolizzato quanto lei, temendo per la propria inadeguatezza al compito che la società le affida, entra in un’associazione di alcolisti anonimi. Il finale vorrebbe tenere col fiato sospeso perché il marito, ancora intossicato, supplica l’ormai pura fanciulla affinchè rimanga con lui, e partono i titoli di coda: c'è forse da leggerlo come un delicato omaggio al potere psicologico femminile che si avvale della promettente Mary Winston (già in un ruolo minore in Death Proof), giovanissima e capace di reggere su di sé quasi l’intero film, altrimenti a rischio piattume. Ma per quanto concerne il tema delle dipendenze risulta scritto e realizzato con maggiori sfumature e complessità Thanks for Sharing di Stuart Blumberg: i dipendenti costretti a condividere il proprio vizio sono qui i sessuomani, già riconosciuti in America come elementi da curare, mentre altrove a ventilare un’ipotesi del genere si rischia l’etichetta di moralismo, tendenze inquisitorie, cattolicesimo ancient-regime; invece, nel film, il tema viene affrontato sul serio, con tutta la sua carica tutt’altro che banalmente calvinista. Nell’odierna società dell’immagine, dove una parte difficilmente quantificabile di immagini è a sfondo sessuale, c’è chi soffre profondamente in relazione alle proprie prestazioni. Il film ironizza su questa nuova malattia del comportamento, tendendo infine a risolvere tutto in un rassicurante lieto fine, non si sa quanto apparente.

Dalla remota Russia, è arrivato un prodotto tutto diverso che, è il caso di dirlo, stacca un po’ la spina rispetto all’egemonia nord-americana della sezione (sarà il Nord-America che ha più problemi rispetto alla media in questo particolare frangente storico, o che sa meglio interpretarli?): in Shopping Tour di Mikhail Brashinsky, russi che vanno in vacanza in Finlandia, e finlandesi che si trasformano in vampiri. In conferenza stampa il regista scherza: “Abbiamo capito che la cosa migliore per un finlandese è suicidarsi, perché come può vivere felice un popolo che ha il buio alle 3 del pomeriggio?”. Ma, nelle dichiarazioni rilasciate per il catalogo del TFF, meglio esprime l’importanza che attribuisce all’operazione: “Il significato principale di Shopping Tour sta semplicemente nel fatto che esista, […],  e che sia stato girato con pochissimi soldi da un gruppo di professionisti autoprodottosi, stanchi di essere intrappolati nei limiti finanziari e ideologici delle major dell’industria cinematografica. Come tale, è una delle prime produzioni russe veramente indipendenti, probabilmente un’opera pioneristica […] Il resto è puro divertimento”. E se così è ci viene da fargli tanti auguri.

La nostra panoramica a volo d’uccello sulle commedie di Rapporto Confidenziale si conclude con Wrong, tra le operazioni forse meno significative, pur meritevolmente sperimentali, inserite in questa caotica e pittoresca sezione del festival: con questa fatica di Quentin Dupieux pare, a chi scrive, di ritrovarsi davanti a un arbitrario e pedante accumulo di assurdità (un guru che fa scomparire i cani cercando di risvegliare la coscienza animalista dei proprietari è il labile nucleo della trama). Non si intravedono precisi punti d’approdo, una struttura, ma lasciamo che il regista Dupieux si spieghi: “Ho scritto Wrong seguendo lo stesso metodo che ho utilizzato negli altri miei film: procedere in modo casuale […] Cerco di non aver troppo controllo sulla materia”. Non c’era da aspettarsi molto di diverso da qualcuno che aveva esordito al lungometraggio con una pellicola dal titolo Nonfilm, ci limitiamo a osservare come, nel singolo caso qui in esame, l’accumulo di paradossi paia piuttosto debole di senso e di mordente. Christmas with the Dead può essere infine ricondotto al vasto settore dell’horror parodistico, sebbene a parte i riferimenti alla “morte” non abbia granchè di orrorifico. Ciò che vi accade è che in un Natale qualsiasi quasi tutti diventano zombie. Certo non fa paura, ma neanche ridere. I dialoghi risultano curati (il regista T. L. Lankford, alla sua prima esperienza col lungometraggio, è stato a lungo sceneggiatore e anche autore di racconti), ma mancano ritmo, divertimento, atmosfera.

Prima di spostarci sul settore degli horror duri e puri, vanno menzionati ancora due o tre titoli di fosca denuncia sociale. Con K-11, la sceneggiatrice Jules Stewart, madre dell’attrice Kristen e qui al suo esordio in regia, confeziona un thriller carcerario per stomaci forti. La Martini, con elegante scelta di termini, ha definito il film “il trashone”, mentre apprendiamo in conferenza stampa che l’intento era denunciare un sistema giudiziario californiano dove, se un indagato risulta propenso a intossicarsi o a prostituirsi, viene tenuto a lungo in reparti di custodia cautelare, dove può uscire e rientrare un numero indeterminato di volte prima dell’inizio del processo vero e proprio. Al protagonista, per esempio, capita di dichiararsi gay sotto l’effetto di stupefacenti, ed è l’inizio dell’inferno. Questo per chi, magari avendo mancato i documentari-fiume di Herzog, non nutrisse ancora un sacrosanto timore verso le strampalate giurisdizioni d’oltreoceano. Tower Block di James Nunn e Ronnie Thompson si avvale, grazie a quest’ultimo, di un insolito contributo: prima che regista, Thompson era stato guardia carceraria per poi dimettersi e pubblicare in un libro la sua denuncia sulla corruzione dilagante nell’ambiente che ha conosciuto; ne sarebbe stato tratto un film, dopodiché dietro la macchina da presa ora ci è finito lui. Nel film, dove un mattoide inizia a far fuori gli abitanti di un palazzone periferico di Londra, non sono elusi riferimenti ai recenti episodi di caos e rivolta popolare avvenuti nella capitale inglese. Più sul versante della commedia riesce a collocarsi un altro thriller poliziesco come Compliance di Craig Zobel: ispirato all’episodio vero di uno squilibrato (o più d'uno?), tuttora non identificato, che in America telefona fingendosi ufficiale di polizia e ne riesce a combinare di tutti i colori, come per esempio quando ha costretto, nell’episodio qui raccontato, a far perquisire, denudare, umiliare, colpire, da parte dei di lei colleghi, una commessa di fast-food falsamente imputata (sempre via telefono) di furto. Se ci piace constatare come la nazione che si proclama esportatrice di democrazia nel mondo faccia ogni tanto autocritica e mostri quanto la sua popolazione sia pronta a mettersi prona alle assurde istanze di un’autorità autoproclamatasi via telefono, va apprezzato del film il tocco non eccessivamente pesante, che gli permette di mantenersi thriller ad alta tensione capace di scivolare in numerosi frangenti di humour nero.

Ma è il momento di passare alla ricognizione degli horror veri e propri: ammesso sia vero che siano deputati ad esprimere le nostre inquietudini più comuni (come ha affermato Jorge Torregrossa, su cui torneremo a breve), alcuni di essi sono parsi appesantiti da un fardello di clichès sempre più ingombrante. Il più classico potrebbe apparire Citadel dell’esordiente Ciaran Foy: agorafobia, claustrofobia, un trauma, con un’amata fatta a pezzi da creature à la The Brood di Cronenberg e un giovane padre rimasto disturbato; intorno a lui un universo malsano, con ambigue allusioni al paranormale e un senso della religione sempre meno rassicurante, e ancora labirinti di palazzoni ripresi in infinite soggettive al cardiopalma. Ma né più né meno. Promettente, forse, ma per sfegatati del genere. E il poc’anzi citato Torregrossa non fa molta differenza: non esita a tirare in ballo Melancholia per sostenere che il dilagante genere apocalittico è solo la valvola di sfogo di un tempo di crisi. Nel suo La fin l’umanità scompare progressivamente in modo inesplicabile, ragione per meditare su amore, amicizia, solitudine. Più che altro viene in mente Vanishing on the 7th Street di Brad Anderson, in Rapporto Confidenziale due anni fa, ma il film è tratto da un romanzo antecedente. Come però nella pellicola di Anderson, interessa particolarmente la riflessione metacinematografica relativa all’onnipotenza del mezzo filmico nella realtà parallela che esso plasma, poiché la scelta dell’inquadratura o del fuori campo può da sola bastare a decidere dell’esistenza dei personaggi. E, comunque, la tecnica è raffinatissima, con colori smaglianti, e riconferma curiosamente la penisola iberica come attuale, e pressoché indiscutibile, regina europea dell’horror.

Rapporto Confidenziale tratta dunque, abbiamo spiegato, inquietudini e ansie della contemporaneità. Tra le tante non poteva mancare quella per la povertà di idee per un soggetto, problematica che ha provocato uno dei drammi più disturbanti di queste stagioni: la continua voglia di remakes. Per restare in tema di horror iberici, Come Out and Play è il remake di un cult della stagione dei gotici artigianali mediterranei, Come si può uccidere un bambino di N. I. Serrador del 1976, ma l'autore bielorusso dell'operazione, firmatosi Makinov, ha forse fatto bene a mantenersi sotto anonimato. Sappiamo di lui soltanto che ha dedicato una serie di documentari a un gruppo di sciamani; ma non è abile coi trucchi del mestiere coi quali vorrebbe qui misurarsi: i vari giochi dei contrasti, come creare il terrore sotto il sole (l'ambientazione è un'isola tropicale) e rendere i bambini mostri (viene in mente la citazione jamesiana in chiusura dell'agghiacciante Quella villa accanto al cimitero di Fulci: "No one will ever know whether children are monsters or monsters are children"). Forse il sole farà paura ai bielorussi, come ai finlandesi, perchè ne vedono poco, però nel film in questione di paura, è il caso di dirlo, non ce n’è neanche l'ombra. Ma l'altro remake a essere originale non ci ha nemmeno provato: tratta di un maniaco, si intitola Maniac, ed è ispirato a un film curiosamente omonimo di William Lustig del 1980: solo l'esercizio tecnico è intrigante, perchè per entrare meglio nella mente del maniaco il regista Franck Khalfoun (al suo terzo titolo nel genere) ha pensato di girarlo quasi tutto in soggettiva, sortendo effetti potenti.

Se talora, in questi tempi difficili, assistiamo al dramma di chi non riesce a mantenersi all'altezza dei grandi titoli, non va sottovalutato neanche quello di chi non riesce a mantenersi all'altezza dei grandi nomi (di famiglia). Hollywood, sempre più aristocrazia di sangue, esporta Jennifer Lynch, rimasta a lungo dietro le quinte dopo il suo esordio a 25 anni nel 1993 con Boxing Helena. In Chained racconta l'incubo di un bambino cresciuto sotto la prigionia di un maniaco (ancora?) di nome Bob. Quella per i nomi si rivela proprio una mania: non solo Bob è il demone di Twin Peaks (ricordiamo che prima ancora di passare dietro la macchina da presa la Lynch trovò il tempo di redigere Il diario segreto di Laura Palmer), ma è anche una presenza malefica ricorrente in molti dipinti del grande David. Quel che però possiamo affermare senza tema di smentita è che, nonostante qualcuno di nome Bob sembri infastidirli, si tratta di una famiglia allegra: se Lynch padre da quasi un decennio è diventato guru della meditazione trascendentale, pur continuando a fare film su incubi, anche la figlia spiega che nel finale aperto del suo film vede una speranza com'è sempre stata abituata a fare. Tra l'altro, rivela, è stata in questi giorni raggiunta da una telefonata del padre, in vacanza in Polonia (dove girò parte di Inland Empire), il quale si è appena “innamorato di un'idea” (suo modo di esprimersi caratteristico) per un nuovo lungometraggio: l'ultimo era stato proprio quell'Inland Empire di 6 anni or sono, dopo il quale sembrava che nessuno avrebbe più avuto il fegato di produrre imprese talmente anticonformiste: vedremo come se la caverà questa volta, e ringraziamo Jennifer per lo scoop che ci ha concesso.

Tra i grandi nomi cui ho fatto menzione in apertura del presente articolo, Sion Sono, va detto, se l'è cavata più che decorosamente con The Land of Hope. Messa quasi interamente da parte la visionarietà spesso provocatrice che era suo marchio di fabbrica, ha cavalcato l'onda della catastrofe di Fukushima per realizzare un prodotto denso di umanità, dolce e desolato, forse un po' lungo, come incalcolabilmente lunghe sono le conseguenze dell'esposizione umana alla radioattività (sembra si vada dalla settimana agli oltre 20 anni): ne esce l'immagine di un popolo profondamente terrorizzato dalla fallacia tecnologica, un popolo ora diviso tra la voglia di guardare al futuro con rassegnazione “zen” e lo sforzo rabbioso di chi pretende ogni precauzione in difesa della specie. Ma chi è venuto qui per dare prova, reputiamo, di una ulteriore maturazione creativa, è stato Rob Zombie. L'ambizione non gli manca: con The Lords of Salem voleva realizzare, dichiara, un viaggio nell'interiorità capace di ricalcare quelli di Kubrick, Lynch e Cronenberg. La prima metà di film scorre in realtà abbastanza equilibratamente tra Argento e Carpenter, con streghe che si risvegliano sotto l'ipnosi di una setta plurisecolare, musiche in grado di rievocare incubi arcaici, e il senso di smarrimento della fede religiosa, nonostante i numerosi uomini barbuti e affabili (e un prete), gli unici, sembrerebbe quasi, capaci di contrapporsi al malvagio potere femminile della setta. Poi, quando anche la protagonista Sheri Moon Zombie è ormai mezza strega, esplode il viaggio onirico vero e proprio: notevoli i giochi visivi creati, per esempio, quando lei percorre un corridoio oscuro, apre una porta, e, aldilà di ogni previsione, subentra un campo lungo su un immenso teatro barocco dove attacca il Requiem di Mozart. Di lì in poi il senso del panico diviene inoppugnabile. Citiamo ancora Dario Argento per meglio spiegarci: “La paura la cercano i principianti, e può essere paragonata a uno stato febbrile di 38°, malessere, mentre io cerco il panico, cioè oltre i 40°, il delirio”. The Lords of Salem si dimostra, specie dalla seconda metà in poi, esattamente un delirio.

Vogliamo, in dirittura finale, citare due chicche palesatesi nel corso della rassegna. Bobby Yeah di Robert Morgan è un corto in stop-motion su mostriciattoli che esplodono, copulano, guerreggiano, e molto altro, da quel poco che se ne riesce a capire: in verità l'inventiva è talmente notevole che riesce difficile rendere a parole lo straniamento che questa pur breve esperienza visiva (e forse più precisamente videoartistica) riesce a regalare: si può a malapena suggerire qualche allaccio a sperimentazioni del tipo di Eraserhead o Tetsuo. Il già citato V/h/s mostra invece una sfrontatezza nell’abbandonarsi al trash tale da sfiorare il sublime, e in definitiva ammettiamo possieda un livello di gradimento molto correlato ai gusti, ma il modo in cui è stato concepito risulta particolarmente sui generis: un folto gruppo di ragazzi (Martinez, che l’ha presentato in conferenza stampa, B.-Olpin, Bruckner, Gillett, McQuaid, Silence, Swanberg, Villella, West, Wingard), pensando di destinarli a internet, ha messo insieme una serie di episodi dei più assurdi: in uno c'è chi indossa occhiali fotosensibili pensando di immortalare un'orgia che si trasforma in massacro per via di femmine-vampiro; un altro è tutto un videochattare tra un adescatore di ragazze per conto di alieni che cerca di convincerle a non stimolarsi nel punto del corpo ove è stato impiantato loro un microchip di sorveglianza; in un altro ancora una troupe viene aggredita da un mostro che, nonostante tutti gli sforzi dei documentaristi, non riesce a rimanere impresso nell'immagine; e ancora porticine che si aprono su riti occulti, satanici o semplicemente sadomaso, in un costante flirtare tra paranormale e leggende metropolitane. La cornice è costituita da un gruppo di ladri che devono trafugare una vhs, ma non sapendo quale le scorrono tutte scoprendo le suddette amenità. Anche loro faranno una fine poco chiara. Inutile precisare che si è trattato di un'operazione quasi interamente autoprodotta, e che molti di coloro che hanno girato hanno ammesso di non aver fatto quasi uso di sceneggiature né tanto meno di storyboard. Eppure non mancano zampate di genio né effetti visivi solidi, mentre la sala alternava momenti di riso genuino ad altri di balzo sulla sedia. Intendiamo perciò chiudere questa ricognizione congratulandoci con i più brillanti tra gli autori dell'operazione e auspicando che non divengano sempre meno rare le espressioni di tanta furente libertà creativa.

 


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