Non c'è cosa più triste per chi vive visceralmente il cinema di un film che tradisce. Se poi quel film appartiene a David Lynch - uno di quelli che sta nel tuo Olimpo personale - allora lo scoppio di rabbia è ancora più fragoroso, soprattutto perché l'inesistenza di quel film avrebbe lasciato intatti i tuoi sentimenti.
Le aspettative erano ovviamente alte: il titolo, Mullholland drive, lasciava presagire un ritorno al road-movie deviante e astratto dopo la parentesi impressionista e "a passo di marcia" di Una storia vera; come in Strade perdute si capisce subito che il viaggio, anzi la strada, è un'idea non una struttura narrativa o uno scenario vero e proprio. Le striscia d'asfalto che si snoda nei deserti, lontana dal centro urbano, è solo uno dei "non-luoghi" cari a Lynch (ricordate il termosifone di Eraserhead oppure la stanza del nano di Twin Peaks?); lo spazio anonimo diventa forma, texture, punto di passaggio alle realtà parallele dove non si sa se regni l'irrazionale oppure una ferrea logica lynchana in cui frammenti di fiabe malate generano buffi mostri per bimbi troppo curiosi.
Ancora una volta la "strada" come idea alloggia in interni, che rievocano le tinte pastello di Velluto blu piuttosto che l'ocra-nero di Strade perdute. Ma ecco il primo fallimento: questa volta il regista americano non riesce a ricreare uno spazio vivente, pulsante e allo stesso tempo soffocante come nelle occasioni precedenti; il nero non inghiotte i personaggi nel nulla, i viola e i blu sono un po' piatti e privi di quella natura tattile ed epidermica tipica di Lynch, la disposizione delle "pedine" in scena poi rischia più di una volta di essere sciattamente "televisiva" come mai si era visto prima nella sua opera.
Ma è soprattutto nell'architettura narrativa che Mullholland drive tradisce il tentativo fallito di replicare l'alchimia forse irripetibile di Lost Highway.
Nel film scritto con Barry Gifford la sottrazione dei passaggi narrativi previsti in sede di sceneggiatura (già di per sé un capolavoro) donava alla vicenda una tensione ininterrotta tutta giocata sulla tecnica del cerchio interrotto che pian piano si avvita su sé stessa per trasformarsi di volta in volta in spirale, vortice, gorgo infernale; in Mullholland drive invece, nel momento in cui il cerchio si spezza, lo spettatore ha la sensazione che Lynch stia rimasticando, non tanto il film stesso (come magistralmente aveva fatto Ferrara nel suo New Rose Hotel) ma tutto il suo cinema. Rispuntano uno dopo l'altro tutti i cliché dell'autore americano, messi in bella fila e ruminati fino all'esasperazione. Sembra il classico caso in cui il maestro si mette a imitare non tanto sé stesso quanto i suoi imitatori e i suoi eponimi più incapaci.
Insomma caro Lynch: non tutte le ciambelle riescono senza buco, forse era meglio farne un'altra precisa e tonda come The Straight Story.
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