Eyes wide shut: occhio per occhio PDF 
di Marco Toscano   

Doppio sogno. Vale a dire sogno rivelatore di verità sotterranee e realtà attraversata, spiata come in sogno. Occhi chiusi, per accogliere il sogno. Occhi aperti, per in quel sogno perdersi, accecarsi. Spalancati dall'incredulità, ma altrettanto incapaci di "guardare". Sono quelli del dottor Fridolin, protagonista del romanzo di Arthur Schnitzler, come quelli del dottor William Harford, suo alter-ego cinematografico nel testamentario Eyes wide shut di Stanley Kubrick. Entrambi parimenti all'oscuro delle ambigue insenature celate nella quotidianità, delle arcaiche spelonche in cui si smarrisce l'animo umano, della straordinaria facilità e frequenza con cui questo capita, di quelle dinamiche credute fino ad un attimo prima così familiari. Entrambi ostinatamente, per tutta la durata della loro esistenza sotto il nostro sguardo, con gli occhi inutilmente aperti, a segnalare uno stato perenne (e quindi già di per sé innaturale) di veglia.

A controbilanciare tale condizione, che connota di per sé i protagonisti maschili, ponendoli junghianamente dalla parte di uno sguardo raziocinante e ordinatore di una realtà che va annebbiandosi, salta subito agli occhi la diversità delle loro partner: quanto i mariti si dimostrano iperattivi e immuni al sonno, tanto le mogli se ne stanno inoperose e per lo più dormienti; quanto i primi si aggrappano al vano raziocinio tanto loro sognano, lasciando campo libero all'espressione potente e devastante dell'inconscio, e trovano una connotazione più che altro fisica, sensuale (basti pensare all'esposizione del corpo della Kidman); quanto gli uomini passano la maggior parte del tempo fuori di casa (per lavoro, per ansia omerica di fuga, conoscenza, avventura, imprevisto) e si trovano ad affrontare situazioni che deragliano dai binari della routine, tanto le rispettive compagne vivono una dimensione prettamente domestica e quotidiana, ordinaria. Occhi chiusi i loro. Ma muniti di una possibilità di visione (anche della realtà che a loro sarebbe negata in quanto assenti) e di una capacità di pre-visione. Addirittura chiaroveggenti. Non a caso sono loro ad "aprire" quelli dei mariti, al termine di una discussione cominciata quasi per gioco che è un lento sprofondare nel dubbio, nella vergogna di un'inattesa nudità di fronte al sospetto, ad una sconosciuta sensazione di estraneità. "Ah, se sapeste!" sibila Albertine, ed è uno squarcio, uno strappo difficilmente ricucibile. Perché se una creazione inconscia introduce il timore dell'incertezza (dato che "nessun sogno è interamente sogno"), il ricordo (e il vago rimpianto, e la minaccia) di un desiderio anche solo accennato scatena il terrore dell'evidenza, il collasso dei pianeti. E, finalmente, anche per gli ottusi Fridolin e Harford, un processo di autocoscienza.

Detto ciò, risulta quindi chiaro come Eyes wide shut non avrebbe potuto essere trasposizione più fedele del romanzo psicanalitico di Schnitzler, almeno nel suo senso più profondo. Senza contare che la vicenda del dottor Fridolin è principalmente la storia di una progressiva perdita d'identità, e in ciò perfettamente collimante con l'universo narrativo di Kubrick (basti citare Il dottor Stranamore, 2001: Odissea nello spazio, Arancia meccanica, Shining, Full Metal Jacket), costantemente concentrato sugli smarrimenti, le moltiplicazioni, i transiti e le ri-costruzioni identitarie. E in quest'ottica appare decisiva la quantità di volte in cui Harford fa appello alla propria dimensione professionale (esibendo ossessivamente il tesserino di medico) e di conseguenza a quella sociale ed economica (sborsando continuamente ingenti somme di denaro) per rintracciarvi le certezze dimenticate e ricavarvi la sicurezza necessaria per relazionarsi agli altri. Oppure osservare la sua reazione, al vedere la maschera che Alice ha trovato e (subdolamente forse, più probabilmente in modo inconscio) ha adagiato accanto a sé, sul cuscino del marito: ormai egli è nient'altro che una maschera svuotata, senza la possibilità di riconoscersi, né di essere riconosciuto dalla moglie.

Ma se da un regista del calibro di Kubrick è lecito attendersi naturalmente un apporto personale, una rielaborazione geniale, ecco che a intervenire è proprio ciò che distingue l'"autore" dal semplice "esecutore": il possesso di un preciso, riconoscibile "stile". Che, in questo caso, si rivela esattamente come richiesto dallo specifico cinematografico: visivamente e auditivamente. Se l'utilizzo in colonna sonora delle misteriose sonorità di Ligeti rimanda alla tradizione kubrickiana e crea cortocircuiti di senso con spazi e tempi lontanissimi dalla lussuosa villa newyorkese (l'orgia come trasposizione rituale moderna del girotondo ancestrale degli scimmioni intorno al monolite?), il valzer di Sostakovic, tanto sinuoso quanto "insinuante", è talmente funzionale alla mobilità della messa in scena da risultare ormai inutilizzabile per qualunque altro cimento cinematografico (quello che è successo un po' per tutte le scelte musicali di Kubrick, assolute e definitive).

Ma a giocare un ruolo fortemente concettuale nel film è una fotografia che punta tutto sulla contaminazione simbolica dei colori - con il viola ad esempio, tinta funebre per eccellenza, ad ammantare le lenzuola della coppia e a macchiare tutte le donne incontrate da Harford nella notte le quali, in un modo o nell'altro, hanno sistematicamente a che fare con la morte: Marianne ha appena perso il padre, Domino si scopre sieropositiva, Amanda paga con la vita - e sulla contrapposizione violenta di tonalità calde e fredde, capace da sola di supportare visivamente tutta la serie di coppie antitetiche di cui si costruisce il romanzo (nonché il film): sogno/veglia, interno/esterno, certezza/dubbio, maschile/femminile, presente/passato, dovere/piacere, e così via. Ad esempio quando marito e moglie sono ancora ignari del tormentato percorso che li attende, entrambi si trovano in una camera da letto immersa in una rassicurante luce calda. Per spalancare la porta dell'abisso, richiamando una tentazione mai confessata, però, Alice va a sedersi a terra, proprio sotto una finestra da cui irrompe una raggelante, inquietante luce bluastra. Mano a mano che la situazione precipita anche la presenza di tale tonalità aumenta: ora interi ambienti della casa ne sono inondati. Quando Harford scoppia in lacrime davanti alla maschera, ormai marito e moglie hanno perduto il loro rapporto, la fiducia reciproca (segue la confessione delle avventure notturne del primo), annegati in un blu ormai ghiacciatosi, assoluto e spettrale. Nella sequenza immediatamente successiva li ritroviamo al centro commerciale, intenti a scegliere i regali natalizi per la loro bambina: la luce è calda, di nuovo confortevole sulla loro riconciliazione. Ma, a differenza dell'inizio, è una luce falsa, artificiale rispetto a quella di un interno domestico, a riflettere un riavvicinamento problematico, probabilmente impossibile, dettato più dai molteplici e ingombranti doveri comuni (la bambina per esempio) che da un reale sentimento.

E se è vero che il film di Kubrick ripercorre ossequioso il senso del testo di Schnitzler, proprio sull'ultima nota, all'ultima riga, dentro l'ultimo fotogramma si sprigiona una lettura nuova, personale, la rielaborazione geniale. Se la coppia di Schnitzler, sfinita, ricordando un po' quella di Aurora di Murnau, si ritrovava ancora insieme ("sonnecchiando anche, l'una vicino all'altro, ma senza sognare") sul "vittorioso raggio di luce" che annuncia il nuovo giorno, William e Alice non sono in casa, in una camera tornata familiare, ma in un centro commerciale (nuova straniante dimensione "domestica"). Lui domanda qual è, secondo lei, la prima cosa da fare. Se la risposta è il celeberrimo "scopare" risulta chiaro il capovolgimento vertiginoso, proprio perché fuori tempo massimo, dell'ottica schnitzleriana. Quanto essa lasciava posto ad una, seppur tiepida e incerta, speranza di palingenesi del rapporto, tanto questa risposta, quest'unica parola, spazza ogni residua possibilità di un paziente lavoro di ricostruzione e recupero, e anche di un'eventuale finzione, atta a proiettare quanto meno il simulacro di quanto perduto. Se "scopare" è ciò che resta da fare, ciò non può essere tradotto come entusiastico sussulto di una passione dimenticata, come ritorno alle origini, bensì come la disperata consapevolezza che dal naufragio a salvarsi è stato un singolo elemento: l'attrazione fisica tra marito e moglie. Base invidiabile sulla quale costruire, ma, in totale mancanza di un'idea architettonica e di qualsivoglia materiale da costruzione, ben poco. Perché destinata, presto o tardi, ad estinguersi, oltre che ammissione incondizionata di sconfitta sul piano del logos e trasferimento su quello dell'eros, di cui Alice si fa portatrice sin dall'inizio.

Se la famosa risposta conclusiva costituisce senza dubbio la differenza concettualmente più rilevante rispetto all'originale letterario, facendosi portavoce di tutta l'amarezza esistenziale dell'autore Kubrick, tuttavia sono riscontrabili una serie di altri elementi di disparità. Da quelli trascurabili in quanto attribuibili per lo più all'operazione di trasposizione (lo spostamento da Vienna a New York, l'ambientazione nel periodo di Natale invece che di Carnevale) a quelli più significativi: ad esempio l'introduzione del personaggio di Victor (impersonato dal regista Sydney Pollack), assente nell'originale, o l'omissione del racconto della propria avventura estiva a cui Fridolin, nel romanzo, procede dopo aver appreso la tentazione di Albertine durante quella stessa vacanza. Dal punto di vista della "visualizzazione" una differenza rimarchevole è rappresentata dallo spazio (addirittura i primi 25 minuti) riservato dal film alla narrazione in sequenza della festa alla quale hanno partecipato i due protagonisti, i cui accadimenti principali nel romanzo sono semplicemente richiamati dal narratore extradiegetico quando già la coppia è rientrata in casa. Un ulteriore elemento introdotto dal film è l'attenzione simbolica per i nomi: William (Bill) è nome particolarmente comune che ben si adatta all'odissea di un uomo ordinario, per interpretare il quale Tom Cruise correttamente fa ricorso ad un'ostentata fissità dell'espressione (che ricorda un po' quella di Ryan O'Neal per Barry Lyndon); il percorso di autocoscienza di Alice non può non far pensare al viaggio di Alice nel paese delle meraviglie, ed è singolare notare come anche tale percorso abbia inizio con l'assunzione di droghe (tenendo presente la lettura in chiave lisergica del romanzo di Lewis Carroll); Amanda è "colei da amare" ("donna-angelo" per Harford); Domino, il nome della prostituta con cui Harford medita di "vendicarsi" della moglie, rimanda al nome della maschera stessa indossata dall'uomo, la quale, per l'appunto, è associata all'idea di vendetta. Nel complesso, comunque, la connotazione simbolica sembra costituire una cifra caratteristica del film (col rischio persino di appesantirlo eccessivamente): basti pensare alla parola d'ordine per entrare nella villa, quel "Fidelio" che è anche titolo di un'opera sul tema della fedeltà coniugale.

Davanti allo specchio nudo del loro riflesso due corpi si stringono, familiari, sconosciuti. Lui ha gli occhi chiusi. Lei (addirittura, fino a un attimo prima, munita di occhiali per vedere "meglio") li tiene aperti. E' l'unico momento in cui nel film succederà. Lo sguardo di lui progressivamente si schiuderà sulla propria rovina. Quello di lei sceglierà di occultarsi a lungo, in un sonno insistito, funebre quasi. Occhi comunque destinati a non incontrarsi, sebbene o poiché ormai ri-velati.

 


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