Nell’ultima fatica del 42enne regista indio-americano Shyamalan, sotto una spettacolarità tutta hollywoodiana, è apprezzabile il sottotesto, capace, ancor più se fosse risultato meno effettato, di creare una vertigine di angoscia nel rapporto tra l'uomo e l'ambiente circostante.
Il film è ambientato in un futuro remoto in cui gli umani sono stati costretti ad abbandonare la Terra. Tra citazioni fantasy, dai più celeberrimi come Star Wars e Il signore degli anelli, ad altri meno di massa come Sunshine e 127 ore di Danny Boyle, fino al più recente La vita di Pi di Ang Lee (per quanto concerne la contrastata relazione con la natura), l'avventura ruota intorno a due protagonisti, o, si potrebbe forse dire, due unici personaggi, interpretati in modo efficace ma latentemente stereotipato. Un padre soldato, impeccabile al punto da rendersi invisibile agli animali nemici, che riconoscono la preda in base alle sensazioni di paura che sprigiona, e un figlio incerto e nevrotico ma spasmodicamente teso a emulare la gloriosa figura paterna, e destinato dalle circostanze a ripercorrere un sentiero eroico. I due, a seguito di un incidente su una navicella spaziale - che tentava di raggiungere la velocità della luce in mezzo a una tempesta di asteroidi (anche in questa trovata molta vecchia sci-fi si fa sentire) -, finiscono scaraventati, unici sopravvissuti, proprio sul pianeta Terra, sorta di non-luogo che, con l'insorgere delle forze della natura, si è trasformato in una delle dislocazioni più inospitali per l'uomo. Ed è a questo punto che fa capolino ciò che Freud avrebbe denominato Unheimlich, tradotto approssimativamente come "perturbante", ma che etimologicamente significa proprio il non-domestico, e che si manifesta in un contesto presunto come addomesticabile. Il nostro amato e maltrattato pianeta, in sostituzione di qualche remota ambientazione fantasy, è trasformato in un covo di nemici mostruosi. Qui sta la forza del film, che guadagna in impatto: il mondo della vita, l'Erlebnis husserliana, con cui abbiamo preso l'abitudine a convivere, viene trasformato nella proiezione dei nostri più selvaggi e primordiali incubi.
Eppure, nonostante tante possibilità di sconcerto (Will Smith viene indicato come autore del soggetto), pare che al regista interessi non tanto spingere sul pedale del turbamento, ma solo innescare una movimentata dimensione ludica. Intanto, poco sviluppate paiono le umane emozioni che avrebbero rimpolpato di pathos la tempestosa avventura, e che finiscono rimpiazzate da una messa in scena di figure stereotipo-archetipiche e da un succedersi di effetti d'impatto sensazionale; a dire il vero, sembra proprio di trovarsi davanti a uno dei vecchi film di Jim Henson, in cui i personaggi in carne ed ossa erano poco più o poco meno che due (per il resto si trattava di sofisticati pupazzi, qui sostituiti dal digitale in forme animali rese graficamente il più orripilanti possibile). A prova di quanto qui sostenuto sta il fatto che dal film sia già stato tratto un videogame, come dire che tutti si possono divertire a immergersi nell'avventura pericolosa ma eccitante dei protagonisti. Si teme quindi di rinvenire così un pur vago indizio che il visionario Shyamalan, dopo gli ottimi esordi, sia ormai immerso in un meccanismo commerciale neppur tanto latente. Rimane, ad addensare un po' il debole tessuto drammaturgico, quella riflessione sulla paura, dal carattere squisitamente orientale, di cui anche i trailer si sono impadroniti: "La paura non è reale, è solo frutto di un'immaginazione", con annesso un invito zen di ancoraggio al presente. Conclude la massima, specificatamente assorbita dai trailer e riassuntiva del piccolo percorso iniziatico in mezzo ai mostri che viene qui mostrato: "Il pericolo è reale, la paura è una scelta".
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