Il mito oscuro dell’Italia: Romanzo di una strage PDF 
Umberto Ledda   

Tutti i paesi hanno le loro contraddizioni, i loro lati oscuri. Ma gli italiani, in questo campo, detengono probabilmente l’eccellenza assoluta. Sarà il fatto che ciò che comunemente si chiama Italia è una specie di miscuglio caotico di popoli sostanzialmente diversi, separati da visioni del mondo spesso divergenti, uniti sotto una bandiera che è ancora oggi, dopo un secolo e mezzo, una specie di coperta troppo corta che non riesce a unificare conflitti espliciti e impliciti. Sarà che la posizione nevralgica al centro del Mediterraneo la rendono luogo di scambio e di passaggio, oltre che terreno strategicamente sensibile, negandole la stabilità (storica, sociale, politica). Sarà che l’unica cosa che accomuna i popoli diversi che la compongono è una comune tendenza all’insubordinazione egoistica, l’autarchico menefreghismo nei confronti di dogmi e autorità che caratterizza i popoli che hanno preso l’abitudine di vedersi passare sulle proprie terre eserciti stranieri, senza mai aver sviluppato quella di vedere il proprio esercito passare su quelle degli altri. Saranno mille altre cose. Fatto sta che nella Storia d’Italia i lati oscuri tendono a essere più ambigui, più opachi, più profondamente contraddittori e difficili da spiegare, anche a posteriori, di quelli degli altri grandi paesi. Forse la più grande di queste zone incerte della nostra Storia è iniziata il dodici dicembre del 1969. Da lì nacque tutto ... almeno, da lì tutto assunse una dimensione maggiore, tragica e definitiva: le bombe, i morti, i sequestri, le sette armate ideologizzate, una guerra civile strisciante così carica di ambiguità da essere sostanzialmente illeggibile ancora oggi, se non nei suoi tratti più plateali.

I fatti li sanno tutti. Qualcuno piazza una bomba nella Banca nazionale dell’Agricoltura. Muoiono diciassette persone, una novantina rimane ferita. La polizia segue la pista anarchica. Pochi giorni dopo un anarchico di nome Giuseppe Pinelli, mentre viene interrogato, finisce giù da una finestra della questura e muore. La parte di sinistra dell’opinione pubblica si getta sul commissario Luigi Calabresi, che aveva in mano l’indagine e dal cui ufficio Pinelli è caduto, accusandolo di omicidio. Tre anni dopo Luigi Calabresi viene ucciso, e nel frattempo la tensione politica nel paese è salita vertiginosamente. E questo è grossomodo tutto ciò che di certo si può dire della questione. Tutto il resto è una serie di testimonianze, indizi, controindizi, illazioni, supposizioni, dati oggettivi reciprocamente contraddittori, omissioni e sospetti. Certo, alcune supposizioni hanno una forte probabilità dettata dal buon senso. Per cui è decisamente molto probabile che Pinelli fosse un idealista innocuo e incolpevole, e che non sia morto perché gli era venuta voglia di provare un tuffo carpiato dalla finestra. È decisamente molto probabile che gli anarchici, che erano quattro gatti ontologicamente disorganizzati, abbiano nelle vicenda il ruolo principale di capro espiatorio, o al limite di bassa manovalanza traviata e strumentalizzata. È, infine, decisamente molto probabile che in tutta la questione lo Stato non fosse del tutto alieno (che sia stato il mandante dell’atto, o che sapesse e abbia lasciato fare, non è dato saperlo). Molto probabile, non certo. E tutto il resto si perde in una intricata struttura di doppi giochi e di infiltrazioni (servizi segreti infiltrati negli anarchici, fascisti infiltrati negli anarchici, servizi segreti infiltrati nei fascisti), in una girandola di variabili impazzite, motivazioni personali, eventi importanti noti solo attraverso dichiarazioni interessate, prove fabbricate appositamente e ambigui meandri processuali. A tutto questo si sovrappone una evidente volontà generale di offuscare ulteriormente il tutto, visto che la maggior parte delle forze in gioco aveva nella faccenda interessi che era meglio che gli altri non sapessero.

Ma soprattutto, il motivo per cui la dinamica reale dei fatti si è persa definitivamente è sostanzialmente ideologico. Di tutti i libri, i saggi, gli articoli, i documentari e i film che sono stati fatti sulla strage, nessuno cerca di raggiungere la verità: tutti cercano di raggiungere una ricostruzione dei fatti in cui l’avversa fazione ideologica si prenda tutte le colpe, la propria nessuna. Il che è una cosa naturale e molto umana. Ma ha portato, come naturale conseguenza, alla definitiva opacizzazione del tutto: la strage di Piazza Fontana, già intricata di suo, non è più decifrabile con chiarezza perché i suoi protagonisti, in quest’ansia di spiegare, sono diventati dei personaggi, buoni o cattivi a seconda della bisogna. È diventata indecifrabile perché al di là di ogni schematizzazione ideologica, a metterla in atto furono persone reali, ognuno avente, accanto a motivazioni politiche, tutta una serie di altre motivazioni psicologiche di complessità insondabile. E l’entità e le dinamiche di questa complessità non sono mai state indagate, ragion per cui non ci sono state tramandate.

La strage di Piazza Fontana è diventata così mito - uno degli oscuri miti fondativi della nostra società eccellentemente contraddittoria -, e in quanto tale la verità dei fatti ha perso centralità a favore di un cupo romanzo sociale i cui personaggi rappresentano elementi simbolici del nostro tessuto sociale. Dell’essere umano che fu, Pinelli è diventato L’anarchico. Calabresi è Lo sbirro. La molteplicità di individui (politicizzati, ideologizzati, certo, ma non solo) che plasmarono l’inquietante agire della macchina statale è diventata, a seconda del punto di vista, il Potere che stritola oppure La Necessaria Tutela dell’Ordine. La strage fu compiuta da uomini e tutti ebbero delle motivazioni valide, tutti compirono errori, tutti pensarono che il loro agire fosse necessario, spesso in buona fede, tutti cercarono di salvare se stessi e tutti compirono qualcosa di cui non sarebbero andati fieri. Ma nel mito questa molteplicità non è possibile, soprattutto in un mito ideologizzato e interessato come questo. Il mito deve avere una forma, deve significare qualcosa, tollera l’ambiguità ma solo a patto che poi si risolva. A seconda della ricostruzione, gli uomini che ebbero un ruolo in questa storia sono stati cristallizzati in ricostruzioni parziali che con l’andare del tempo hanno offuscato la percezione dell’evento in sè.

Ad esempio, semplificando molto: Luigi Calabresi fu un maledetto torturatore, un uomo asservito allo stato per cui era disposto a compiere le peggio cose (versione ideologica 1: area di sinistra) / Luigi Calabresi fu un uomo onesto stritolato da un sistema che dell’onestà non se ne fa nulla, quando ci sono interessi superiori da perseguire (versione ideologica 2: area cinico-qualunquista) / Luigi Calabresi fu un uomo assolutamente giusto e buono, ma i rossi lo hanno messo alla gogna, condannato e ucciso (versione ideologica 3: area statalista-conservatrice). Lo stato è un moloch inumano che pur di sopravvivere è pronto a sacrificare gli individui la cui protezione, in teoria, dovrebbe essere il fine ultimo (versione 1) / Lo Stato fa quello che deve per evitare guai peggiori, è brutto ma necessario (versione 2) / Lo Stato non fece nulla di male, la strage la fecero gli anarchici, Pinelli inciampò (versione 3). Lotta continua è un ricettacolo di forcaioli bastardi e assassini / Lotta continua coltiva l’arte del dubbio contro la verità comoda imposta dal regime. E così via. È incredibile quanto ancora oggi, che le ideologie di riferimento in voga in quegli anni si sono sbiadite e sono andate a male, la stragrande maggioranza dei commentatori non si distacchi da questo schema, e di come ogni concessione a una maggiore complessità sia roba rara.

In tutto questo, Romanzo di una strage tenta di dire la sua in una maniera finalmente post-ideologica, per quanto possibile. Marco Tullio Giordana è un regista onesto e in buona fede, e cerca di evitare quanto più possibile le ideologizzazioni, di spiegare senza le armi cristallizzate dell’agiografia e dell’insulto. Il suo Romanzo è un film trasparente, con poca messinscena e poca estetizzazione: fotografia fredda e grigia d’ordinanza (esattamente quello che lo spettatore si aspetta da un film del genere, così che non si distragga dalle cose importanti), inquadrature tradizionali e movimenti di macchina limitati al necessario, all’efficacia. Un atteggiamento umile, consapevole che quanto raccontato è più importante del come, un atteggiamento del tutto opposto a quello che un film per alcuni aspetti accomunabile (il tentativo di raccontare eventi storici recenti oscuri ai limiti dell’illeggibilità), Il divo, metteva in scena qualche anno fa: se là la forma metteva i piedi in testa alla Storia, piegandola al suo volere, Romanzo di una strage sa di essere un oggetto infinitamente meno importante dei fatti che racconta. Giordana è un regista che intende il proprio cinema come un servizio pubblico, come una specie di speciale documentarismo in cui però c’è anche una storia dentro e un po’ di suspense, in modo che le informazioni importanti siano più efficaci. E Romanzo di una strage è questo: un tentativo, convinto e in assoluta buona fede, di portare alla luce uno di quei momenti che ogni cittadino italiano dovrebbe conoscere bene; di spiegare, di mostrare le cose per cui non andiamo orgogliosi ma ci sono state, e se ce le dimentichiamo poi finisce che ci saranno di nuovo.

Giordana aveva già raccontato la morte di Pasolini e quella di Peppino Impastato, ed era sempre riuscito a delineare fatti e ricreare contesti in modo solido, convincente, trattendendosi (quasi) sempre dal giudicare o dall’esprimere la propria opinione personale. Altre sacche oscure della nostra Storia, altri eventi che l’interesse di alcuni impedì di chiarire del tutto. Ma la strage di Piazza Fontana è forse un buco nero troppo grande. La sua importanza storica fu tale che il mito ideologico che ne è nato ha corrotto la possibilità stessa di ricostruire i fatti. E infatti Romanzo di una strage si disperde spesso in una frammentazione di scene che spesso danno la sensazione di appartenere a storie diverse e distanti, destinate a incontrarsi su un piano troppo grande per essere contenuto dalla pellicola. E il tono spesso vira verso una sacralità spettrale (Moro che si confessa con toni millenaristici: “Talvolta penso che all’Italia sia necessaria una catastrofe”) e tragica, quasi come se la rappresentazione oggettiva non fosse possibile, con una storia di questa portata. Troppo grande e dolorosa la sua valenza, troppo dense le sue implicazioni storiche. Alla fine, a ben vedere, sono i momenti migliori del film: come delle piccole rinunce al tentativo di chiarire, dei momenti oscuri, non chiarificabili. Romanzo di una strage, se da una parte si scontra con la necessità di individuare una soluzione, appunto, di fare chiarezza su una storia che non può più essere dipanata in maniera assoluta e oggettiva, dall’altra, quasi senza volerlo, rende l’idea di una ricerca impossibile ma necessaria (anche in questo caso all’opposto de Il divo, che non ci provava nemmeno a dipanare le cose, preferendo costruirsi sulle ombre e sulle ambiguità umane del suo protagonista, traendo proprio da questo la sua forza), un cercare sapendo di non poter trovare, finendo con l’essere uno di quei film che valgono per la mole di dubbi che sollevano guardandoli più che per le soluzioni proposte. Una mole di dubbi vastissima, che poi, quando il film tenta alla fine di risolverli, lo spettatore non ci fa nemmeno caso, perché nel frattempo si è messo a pensare per conto suo, a cercare lui le risposte, a cercare di capire perché, nel suo paese e non troppo tempo fa, un omicidio plurimo premeditato potesse essere considerato da qualcuno un ragionevole strumento per ottenere, o salvaguardare, qualcosa.

Romanzo di una strage
, pur avendo il merito di limitare al minimo le ideologizzazioni e cercando per quanto possibile l’oggettività, non vale molto quando tenta di stabilire in modo definitivo che cosa accadde, e perché. È troppo tardi, le carte furono ingarbugliate fin dall’inizio, le prove messe una contro l’altra e la strumentalizzazione politica fece il resto. Ma è un film che genera la sgradevole sensazione che comunque, a prescindere da come siano andate le cose, qualcosa non vada nella nostra Storia, che qualcosa sia profondamente, e definitivamente andato a male. In maniera più diretta, Romanzo di una strage è, semplicemente, un film che fa girare le palle allo spettatore, da qualsiasi parte ideologica provenga. E di questo, in effetti, c’è sempre bisogno.

 


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