Il petroliere PDF 
Alessio Gradogna   

ImagePaul Thomas Anderson è un grande narratore. Lo si era già ampiamente notato con Magnolia, Boogie Nights, e (parzialmente) Punch-Drunk Love. Storie di vita, descrizioni di mondi sommersi e variegati, sfaccettature ampie e diversificate, a metà strada tra umanesimo e naturalismo, pur sempre con una connotazione ben inserita in una civiltà moderna in cui il rancore, la vendetta, la violenza e l’abbandono emergono come temi costanti. Storie comuni e universali, frammentate dal montaggio in tanti segmenti che sanno respirare di vita propria. Qui ne abbiamo l’ennesima conferma. Anderson è un narratore vincente, in grado di usare la sceneggiatura per costruire un impianto filmico compatto e fluente, che muta la pellicola in una sorta di romanzo per immagini.

Il petroliere, infatti, è un film solidissimo, che si snoda senza intoppi, e che nel raccontare la storia di Daniel Plainview, cercatore di oro nero che a fine Ottocento inizia la sua scalata verso il successo e che poi incrementa i propri guadagni comprando terreni su terreni e imbambolando i poveri contadini con suadenti promesse di ricchezza, mette in piedi un racconto di formazione nel quale entrano in gioco svariati temi. L’avidità, la sete di potere, l’abilità della trattazione e della retorica come anima del commercio, lo sfruttamento indiscriminato di menti troppo grezze per non soccombere di fronte al miraggio di una vita non più povera e stentata, l’immensa e universale solitudine di un uomo che non ha altro nella vita se non il proprio lavoro, ovvero una missione salvifica verso la gloria e l’autocompiacimento, la consapevolezza di un genitore che non è in grado di gestire un figlio, e che sfiora la follia nel guado dei sensi di colpa per incidenti che si potevano evitare. Il petroliere è appunto, e soprattutto, un film sulla solitudine: l’isolamento, l’emarginazione assoluta e immodificabile, con la quale Plainview dovrà convivere per l’eternità, in ricchezza e in povertà. Una scelta in fondo consapevole, di un uomo che di fronte a sontuose offerte rifiuta sdegnato chiedendosi “se io vendo i miei pozzi, dopo cosa faccio?”. Un uomo che ha di fronte a sé una strada, una sola, nel buio e nella luce. La possibilità di scelta non esiste. L’oro nero, o la morte. Immergersi nel petrolio, saturarsi le ossa e l’anima, congiungersi con il nero del mondo nutrendosi di esso fino alla totale perdita d’identità. Un uomo incapace di reggere nella propria coscienza la crescita di un figlio, vero o presunto che sia. Un bambino debole e fragile, senza più il dono dell’udito, che per ossimoro diviene un fardello di cui (forse) a malincuore liberarsi, per poi riaverlo davanti, senza trovare le parole giuste per esprimere un sentimento che in fondo non c’è, e infine rinnegarlo. Al contempo, un uomo senza fede, se non quella per il commercio e il successo, per un obiettivo materiale, liquido, da conseguire con ogni mezzo. L’alternativa è lasciarsi morire, per inedia, per mancanza di una qualsiasi altra ragione di vita. Senza fede, senza paura di prostituirsi agli occhi di una chiesa che egli non riconosce, pur di ottenere consenso, fiducia incondizionata, apprezzamento da parte di chi non è così scaltro da capire l’inganno che in esso si cela.

ImageI soldi e la religione, un Dio presente e vivo, un altro morto e sconosciuto. Due opposti che si attraggono, si scostano, si perdono, si ritrovano. Un prete, l’Angelo (o il Diavolo?) della coscienza di Plainview, un predicatore farlocco che in fondo condivide con il petroliere l’innata capacità di ipnotizzare gli ascoltatori, per condurli al fulcro delle proprie intenzioni come greggi belanti senza autonoma volontà. Un inganno che scivola nella coercizione, e che trova però in Plainview un muro invalicabile, che nemmeno lo scorrere implacabile degli anni riuscirà in alcun modo a scalfire. La maturità, invece, inietterà di sangue gli occhi malati del Dio dell’oro nero, per condurlo a cercare una vendetta inutile eppure essenziale, al fine di elevare la malvagità a sinonimo definitivo della giustizia. Con lo sguardo sperduto verso una lontana oasi di felicità inconoscibile, con le orecchie deformate dal rumore assordante e incessante delle trivelle in azione, con il cuore ricoperto da quel liquido nero che penetra fin nel fondo delle viscere diffondendosi come una metastasi da cui non si torna più indietro, con la mente inebriata e annebbiata da un senso distorto per una vita erosa dai contorni della follia, con il cuore ricoperto da una patina di incessante e calcolata freddezza: così cammina sulle acque della vita Daniel Plainview, egli stesso una divinità, o forse la personificazione del più terribile dei diavoli. Un demone dal volto umano, il volto del maestoso Daniel Day-Lewis. Magnifico, ipnotizzante, in uno spettacolo di gesti e tic e lievi movimenti e scatti di rabbia e percezioni di rimpianto. Una prova che ricorda quella già stupefacente di Gangs of New York, e forse la supera anche.

ImageAnderson narra con abilità e tesse i fili di una storia intensa che morde le redini di un’umanità in fondo smarrita e disperata, Day-Lewis si scatena, la colonna sonora ci accompagna martellante e sincopata, i corpi si immergono simbioticamente nel petrolio e ne escono interamente ricoperti, divenendo creature mostruose e indistinguibili. Noi soffriamo, e partecipiamo, fino a rabbrividire.

 


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