La trasposizione cinematografica fra semiotica e analisi PDF 
Flavia Borzacchiello   

La trasposizione cinematografica viene considerata dalle teorie semiotiche una forma di traduzione. Roman Jakobson (1963) la comprende all’interno della distinzione delle tre modalità di traduzione che inserisce nelle sue teorie sul linguaggio, definendola traduzione intersemiotica o trasmutazione, in quanto traduce un determinato sistema linguistico (il linguaggio verbale in forma scritta) in un altro sistema di tipo differente (il linguaggio cinematografico, formato da differenti materie) .

Il passaggio da un sistema all’altro avviene mediante la trasformazione dei diversi strati da cui è costituito il linguaggio di partenza in quelli del sistema linguistico di arrivo: come sostiene Louis Hjelmslev , infatti, un linguaggio può essere diviso in due piani, ognuno dei quali si articola secondo tre strati differenti, che devono coesistere necessariamente affinché il codice linguistico possa costituirsi e operare. Il primo dei due piani in cui il linguaggio si articola, secondo il linguista danese, è quello dell’espressione, che comprende tutti gli elementi che riguardano il significante linguistico e si articola in: forma dell’espressione, costituito dai significanti e le regole che ne permettono la formazione; sostanza dell’espressione, ovvero tutto ciò che nel testo è manifesto e direttamente percepibile; la materia dell’espressione, cioè il supporto fisico necessario per rendere manifestabile un atto enunciativo.

Il secondo piano, invece, è quello del contenuto, che riguarda la sfera del significato e si articola anch’esso in forma, sostanza e materia, delle quali la prima riguarda i significati e le regole che ne permettono la formazione, la seconda tutto ciò che nel testo è manifestato e non direttamente percepibile e il terzo il mondo, ovvero l’universo di fatti che il codice può manifestare.

Partendo dalle teorie sulla stratificazione del linguaggio di Hjelmslev, quindi, si può ritenere la traduzione intersemiotica come un procedimento consistente non solo nel far passare, o riproporre, le forme del contenuto del testo di partenza in quello di arrivo, ma anche come un processo dinamico, il cui fine principale è quello di attivare e selezionare il sistema di relazioni fra i due piani linguistici del testo di partenza e di tradurle in modo adeguato in quello di arrivo. Scopo del processo di trasposizione, quindi deve essere quello di riprodurre nel testo di arrivo il sistema di correlazioni fra significanti e significati messo in atto dal testo di partenza, caricandolo comunque di nuovi sensi in conseguenza della specificità dei codici utilizzati dal linguaggio cinematografico.

Il termine trasposizione, infatti, richiama sia l’idea dell’oltrepassare che quella del trasferire e suggerisce il concetto di andare al di là del testo di partenza, attraversandolo e moltiplicandone le potenzialità semantiche. Secondo Nicola Dusi, si delinea in tal modo una differenza fondamentale col termine adattamento, utilizzato spesso nelle teorie sulla traduzione intersemiotica da un testo scritto a uno filmico come sinonimo di trasposizione. Mentre quest’ultima, come già affermato, richiama in sè l’idea di una struttura ordinata che regge il passaggio trasformativo da un testo all’altro, rispettandone le differenze e le coerenze interne, l’adattamento, invece, si basa sulla pratica di conformare il testo di partenza a esigenze particolari, funzionali alla cultura e alla specificità del nuovo testo. Essa infatti riconduce l’idea di un processo traduttivo orientato univocamente, che considera rigidamente il testo di partenza come una fonte, di cui il testo di arrivo non è che una forma di costrizione.

La sostituzione fra le due definizioni nell’ambito delle teorie che riguardano tale pratica è dovuta all’idea analoga che richiamano, cioè il loro compimento solo mediante il passaggio da una forma dell’espressione all’altra. Tuttavia, mentre l’adattamento prevede se non la piena identità, almeno l’equivalenza più stretta fra le due forme dell’espressione implicate nel processo, invece obiettivo della trasposizione è una forma dell’espressione che renda la completa equivalenza con il contenuto del testo di arrivo, quindi, come affermato più sopra, la riproduzione del rapporto fra i piani presente nel testo-fonte. Ne consegue che anche in questa sede, per una più semplice comprensione delle teorie presentate, tale interscambiabilità verrà conservata . Uno dei temi principali intorno ai quali si sono soffermate le teorie sulla trasposizione, servendosi anche del contributo della semiotica, è il problema della fedeltà dal testo di arrivo a quello di partenza.

Secondo Andrè Bazin una traduzione per essere fedele non deve necessariamente rispettare in modo preciso il testo di partenza, ma ne deve riprendere lo spirito, partendo dalla ricerca di necessari modelli equivalenti. Egli infatti raccomanda di pensare alla traduzione dalla letteratura al cinema non come a un film che sia degno del romanzo, ma come a una nuova opera che potenzia quella originaria .

A reggere una traduzione, quindi, è il principio di equivalenza, da intendersi non nei termini di identità, secondo cui il testo di arrivo dovrebbe riprendere la sua fonte in tutto e rappresentarne il perfetto corrispettivo in un altro sistema semiotico , ma in quelli di similarità, per il quale il testo di partenza si lega a quello di arrivo in base a un contratto intersoggettivo che il secondo instaura con i suoi destinatari, che ricalca il rapporto che il primo ha con i propri fruitori. La costruzione di questo legame avviene sulla base di elementi che il testo di origine e quello di arrivo presentano in comune e che hanno la funzione di collegarli, ovvero di quelle linee di coerenza semantica del testo che divengono dominanti anche nel testo traduttore. Jakobson , infatti, propone di analizzare un’opera d’arte attraverso la ricerca di una dominante , cioè della sua componente focalizzatrice, che regola, determina e trasforma tutte le altre componenti. Seguendo questo principio, quindi, si può affermare che la traduzione sia improntata su un principio di pertinenza , per cui, soprattutto nella sua forma intersemiotica, si produce un accordo più che un’identità fra i codici coinvolti al suo interno.

Per meglio comprendere il principio secondo cui la traduzione intersemiotica rappresenta un accordo fra codici, senza costituirne una relazione di assoluta identità, bisogna rifarsi alla teoria della semiosi illimitata di Peirce , secondo la quale il testo di partenza e la sua traduzione entrano in una catena di interpretanti in continua proliferazione, orientata in modo unidirezionale e irreversibile. Secondo Peirce la traduzione di un testo non si fonda cioè sul semplice rinvio da un segno a un altro, ma sul continuo accrescimento del senso, in quanto il significato del segno di partenza è da rintracciarsi in quello di arrivo, che a sua volta muterà in occasione di un nuovo processo traduttivo.

Queste teorie vengono riprese da Umberto Eco (2003), secondo cui le traduzioni in generale, e prime fra tutte quelle di tipo intersemiotico, si basano sul principio di interpretanza, in quanto il segno che viene trasposto in un altro non è oggetto di un meccanico passaggio da un sistema a un altro, ma viene interpretato da chi porta avanti il processo. Secondo le sue idee, infatti, una buona traduzione deve conservare in modo abbastanza immutato, e ampliare senza contraddire, il senso del testo originale: il traduttore, quindi, interpreta il testo di partenza senza distaccarsene, ma preoccupandosi di mettere in risalto quelle peculiarità che, a suo avviso, hanno importanza fondamentale per la miglior resa del senso nel sistema linguistico di arrivo . Tale principio è sostenuto da Eco anche in merito alla trasposizione cinematografica, nella quale il processo di trasmutazione da una materia dell’espressione all’altra aggiunge significati al segno e rende connotazioni che nell’opera originale non trovano sviluppo: esso quindi è stato oggetto di un processo di interpretazione condotto dall’adattatore, che offre ai destinatari del testo prodotto secondo queste modalità un nuovo senso.

Secondo Francis Vanoye, il traduttore nel processo di trasposizione si appropria di determinati particolari del testo di partenza e li assoggetta a una serie di scelte, che, come già anticipato nel corso del lavoro, riguardano principalmente l’aspetto tecnico, con la decisione di quali particolari mettere in risalto e quali occultare; quello estetico, dove si sceglie se trarre una sceneggiatura moderna o una classica dal testo fonte e infine quelle di appropriazione, che si riferisce all’ottica da adottare nell’interpretazione dei particolari. Infatti, soprattutto in merito a quest’ultimo tipo, colui che porta avanti il processo di traduzione effettua un’operazione di transfert che non è solo di tipo semiotico, ma anche storico-culturale, per cui la nuova opera presenta i significati della fonte in modo rinnovato e adattato al contesto nel quale l’operazione traduttiva è stata portata avanti, cioè sono stati interpretati secondo la visione dell’adattatore .

Il risultato del processo di trasposizione, quindi, è un nuovo testo , il cui senso rimane sostanzialmente equivalente a quello di partenza, rispetto al quale presenta significati potenziati, conseguenza diretta non solo del processo interpretativo effettuato dall’adattatore, ma anche del passaggio del segno dal piano dell’espressione del sistema semiotico nel quale è stato prodotto a quello della nuova forma che dovrà assumere .  Il legame più profondo, comunque, fra la fonte e il risultato è dato dalla presenza fra i due testi di isotopie, che Greimas e Courtès (1974) definiscono come ricorrenze di categorie semantiche ridondanti nel racconto, che hanno il fine di garantire l’omogeneità del discorso e la coerenza del suo contenuto, sia nello sviluppo del testo letterario, sia nello svolgersi dell’immagine filmica. Ogni traduzione, ivi compresa la trasposizione, quindi, non è semanticamente possibile se non si postulano dei comuni denominatori da cui partire per creare una piattaforma condivisibile fra le due opere e su cui improntarne l’analisi, configurandosi come una vera e propria griglia di lettura sia per l’analista che per il lettore/spettatore.

In Il cinema come traduzione. Da un medium all’altro, Nicola Dusi individua tre principali categorie di isotopia rintracciabili nel rapporto fra romanzo e film. Il primo tipo è quello tematico, le cui componenti sono poste nei testi a livello astratto e rappresentano i temi di cui essi sono intessuti, portatori di valori profondi. Il secondo sono le isotopie figurative, che rappresentano la materializzazione della categoria precedente mediante la costruzione di attori narrativi, spazi e tempi determinati. Il terzo e ultimo tipo è rappresentato da quelle patemiche, che vengono analizzate a partire dalle trasformazioni passionali degli attori della narrazione e portano a indagare la costruzione enunciativa dei testi messi a confronto, in quanto incarnano il tipo di messa in fase che si produce nel lettore e nello spettatore, diversa nei due testi, ma comunque comparabile.

Accanto alle isotopie, in un’analisi comparativa fra romanzo e film bisogna prestare attenzione alle modalità mediante le quali il piano dell’espressione dell’uno si traduce nell’altro, quindi il livello di figurativizzazione che un determinato particolare assume nel passaggio dalla pagina allo schermo. Bisogna innanzitutto considerare che, mentre un romanzo è costituito da una semiotica omogenea, formata cioè unicamente dal linguaggio scritto, il film può essere considerato una semiotica sincretica, in quanto formato da diversi elementi appartenenti a molti sistemi eterogenei. Christian Metz, infatti, sostiene che le materie dell’espressione utilizzate nel cinema siano principalmente cinque, ovvero le immagini, le scritte, le parole, i rumori e la musica, che, unite in un tutto organizzato e coerente, danno vita alla forma dell’espressione.

Come già affermato in precedenza, comunque, nel passaggio dal piano dell’espressione del romanzo a quello del film non vi sarà perfetta traduzione, in quanto i due sistemi semiotici sono caratterizzati da diversi gradi e zone di indeterminatezza. In un’opera letteraria, come viene messo in evidenza da Holub , gli oggetti presentano elementi di indeterminatezza, che compaiono ovunque sia impossibile, sulla base degli enunciati contenuti al suo interno, dire se un certo oggetto o una certa situazione presentino o meno un determinato attributo, al contrario di quelli della realtà, che presentano determinanti specifici. In un film, invece, le immagini contengono necessariamente tutti quei particolari che nella versione letteraria possono non venire specificati, come l’abbigliamento di un personaggio, la sua postura, l’organizzazione degli spazi, per cui, come mette in luce Eco, la loro materializzazione diviene frutto dal processo interpretativo messo in atto dall’adattatore-traduttore.  Ciò non toglie che molte immagini possono risultare di lettura ambigua, in quanto presentano un significato indeterminato, che può trovare concretizzazione solo se si considerano i tratti di pertinenza che le collegano alle precedenti. Meyer Schapiro, infatti, afferma che «la corrispondenza fra la parola e la sua raffigurazione pittorica è spesso un problema e può essere estremamente indeterminata» , in quanto il racconto spesso risulta intraducibile in tutti i suoi particolari perché costellato di descrizioni non solo fisiche, ma anche psicologiche, che non trovano un perfetto correlato nelle immagini .

Il piano del contenuto, invece, nel passaggio dal romanzo al film, può essere tradotto non solo grazie all’ausilio delle isotopie tematiche, che creano un ponte ideologico fra dimensione letteraria e quella filmica, ma anche mediante il riferimento a quelle forme che sono condivisibili fra le due, cioè quei codici che sono rintracciabili in semiotiche diverse, come ad esempio quelli della narratività. L’idea di una traducibilità fra di essi può essere sostenuta facendo riferimento alle teorie sulla stratificazione del linguaggio di Hjelmslev più sopra menzionate. Partendo da queste infatti Deleuze asserisce che la lingua non esiste se non in relazione a una materia non relativa al linguaggio, quindi non linguistica, che essa trasforma. Le semioticità, come mette in luce Fabbri , nasce da un insieme di lingua e di non lingua, in quanto forma dell’espressione e del contenuto rappresentano atti simultanei e strettamente correlati, per cui se una viene tradotta, l’altra subisce la medesima sorte. L’autore infatti afferma che ogni forma espressiva può tramutarsi in una forma del contenuto di una nuova espressione, e così via in una sorta di reazione traduttiva a catena. Si può concludere, quindi, che la traduzione fra la forma letteraria e quella cinematografica avviene in contemporanea sia sul piano del contenuto che su quello dell’espressione, in quanto le due dimensioni non possono essere scisse. Il passaggio da un sistema semiotico all’altro viene attualizzato facendo riferimento a delle precise isotopie tematiche, che hanno la funzione di tradurre il piano del contenuto, al quale corrisponde la sua figurativizzazione, che si materializza al cinema con la creazione di un piano dell’espressione mediante il ricorso alle sue materie costitutive.

 


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