Come inguaiammo il cinema italiano: breve riflessione sul diritto di non rivalutare PDF 
di Eva Maria Ricciuti   

Il revisionismo, si sa, ultimamente è di moda. Il che ha, senza dubbio alcuno, un suo aspetto interessante laddove è possibile, con il senno di poi, reinterpretare e tentare di correggere quanto ha influenzato in modo non proprio ortodosso lo sviluppo della nostra cultura. Anche se non intendiamo discutere sulla legittimità di alcune reinterpretazioni storiche, tuttavia è un fatto che, almeno in campo cinematografico, il concetto di "revisionismo" (ahimè!) sempre più spesso si sposa con quello di rivalutazione, di riscoperta e il più delle volte riabilitazione totale, se non addirittura santificazione.

Con un'automaticità sconcertante che spesso sfugge a qualsiasi tipo di controllo, anche i più turpi (s)oggetti si rivestono di un'aura di sacralità, diventano martiri di una cultura classista e pseudo-intellettuale, che li ha "ghettizzati", discriminati e persino calunniati per anni, gettando nello sconforto totale quanti, seppur motivati da reale interesse, non riescono a scorgere il genio laddove fino ad oggi si vedeva, e malgrado infiniti sforzi si continua a vedere volgarità, cattivo gusto e assenza di intenti.
La tendenza alla rivalutazione del cinema trash anni '70 ha un padre di tutto rispetto: Quentin Tarantino.

Prodigio del cinema statunitense, Tarantino è un guru nella conoscenza della produzione cinematografica internazionale anni '70, cultore dei generi meno conosciuti sulla faccia della terra, estimatore dei B-movie di mezzo mondo, fan degli attori meno famosi del sistema solare. Onore a Tarantino e alla sua straordinaria capacità di (ri)utilizzare codici e registri tra i più disparati; ma ogni tanto, nel silenzio della mia camera, mi interrogo sul reale valore di tale tipo di produzione cinematografica.

È vero che senza quel "cinema di serie B" probabilmente oggi non avremmo film come Kill Bill Voll. 1 e 2, o Pulp Fiction, e non avremmo riso tanto nelle nostre case, laddove possiamo vedere tutto ciò che desideriamo, senza dover fingere sdegno di fronte alla parolaccia gratuita o al rumore molesto. Ma è altrettanto vero che noi siamo italiani e per noi ogni questione futile (e la rivalutazione del cinema trash è futile!) può diventare tremendamente seria, ed è altrettanto vero, bisogna purtroppo ammetterlo, che non abbiamo un artista in grado di reimpastare il nostro repertorio cinematografico e creare un nuovo linguaggio. Ammesso poi che ci fosse qualcuno in grado di farlo, tutto ciò basterebbe realmente a gridare al "genio incompreso" per ognuno dei numerosi attori che imperversavano sugli schermi degli anni '70 accanto alle scosciatissime Edwige Fenech di turno, o che facevano versacci e smorfie?

Non ho mai amato Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, e tutt'oggi non mi sento di sposare questa nuova tendenza che vede nei due attori siciliani dei geni della comicità, elogiando i loro tempi comici, ricordando le loro gag e indignandosi ripensando a quanto il mondo dello spettacolo sia stato duro e ingiusto con loro. Detto questo (e perdonate lo sfogo) ammetto di aver visto con piacere il film-documentario di Ciprì e Maresco dedicato al duo comico palermitano e di aver riso e sorriso dei lazzi di Franco Franchi e ammirato la signorilità decaduta di Ciccio Ingrassia in più occasioni, ma nella consapevolezza che Franco e Ciccio continueranno ad essere quel che sono stati fin'ora, ossia due comici. Indubbiamente i loro film (più di 100!) hanno sdoganato comportamenti che fino ad allora sullo schermo erano considerati tabù e con la loro mimica si possono definire in un certo qual modo i padri di quanti successivamente hanno costruito il successo su una smorfia o su un verso.

Rifletto: senza il famosissimo "Ciiiiccioooooo" di Franco Franchi, esisterebbe oggi l'altrettanto famoso "Miiiiiii" di Aldo Baglio? Dobbiamo altresì ammettere che forse senza di loro ci saremmo risparmiati anche i vari Pierino, e le innumerevoli supplenti e dottoresse e infermiere che, dopo di loro, per un decennio almeno hanno imperversato sugli schermi; ma allora i pudichi genitori italiani si sarebbero trovati in notevole imbarazzo nel discutere di sesso e istinti sessuali con i figli adolescenti.
Dunque, potremmo asserire che Franco, Ciccio e tutto il cinema a loro successivo e la produzione scosciata anni '70 avrebbero in qualche modo avuto una loro funzione sociale? Troppo, direi.

Come inguaiammo il cinema italiano, da questo punto di vista è un titolo azzeccatissimo, e il pregio della pellicola sta nel fatto che non rappresenta un tentativo di "sdoganare" la produzione di Franco e Ciccio, ma ci presenta la storia dei due personaggi e dei loro interpreti, con i loro pregi e difetti e, soprattutto, con un'onestà spiazzante. Di fronte a noi sono presentati due uomini diversissimi tra loro eppure legati, non da una comune passione (la recitazione era la passione di Ciccio, ma per Franco non fu mai così), non dall'amicizia, ma dal successo e dalla consapevolezza di star guadagnando un sacco di soldi, tanto che anche quando ormai non si parlavano più i due continuarono a lavorare fianco a fianco. Una storia anche triste, che nasce dalla fame e alla fame ritorna, una parabola che ha portato due uomini dalla polvere alle stelle, per poi scacciarli, emarginarli e ridicolizzarli, calunniarli, persino. Il tutto raccontato con garbo e rispetto, senza clamore.

In barba a quanti continuano a gridare al genio incompreso del duo comico, Ciprì e Maresco contrappongono la figura di un giovane critico seguace di tale tendenza che viene continuamente e ridicolmente interrotto. Una trovata divertente per prendere le distanze dal luogo comune di una certa critica. Certo, troviamo anche il "mea culpa" di alcuni dei più accreditati critici cinematografici del panorama italiano, che umilmente si cospargono il capo di cenere ammettendo di aver riso fino alle lacrime in sala e di aver poi scritto articoli di indicibile crudeltà. Ma che il duo comico incassasse fior di quattrini è un fatto e dunque non si può che ammettere una palese realtà: era di quel tipo di comicità che l'Italia di quel periodo aveva voglia. Dunque tra vent'anni dovremo aspettarci che qualcuno gridi al genio incompreso di Boldi e De Sica? Probabile sì; ma finché ci saranno Ciprì e Maresco potremo star certi che ci sarà chi cercherà di ricondurre sui giusti binari la questione.

Grazie a Ciprì e Maresco per aver ridimensionato la tendenza al revisionismo incontrollato.

Grazie, per averci presentato due personaggi che, nel bene e nel male, hanno fatto parte della nostra storia.

Grazie, per aver affrontato con serietà e ironia un compito difficile.

Grazie, perché molti dei critici che oggi spalancano gli occhi di meraviglia e gridano al miracolo guardando Sedotti e bidonati, assistendo, magari per trovare conferma al loro lavoro, alla proiezione di Come inguaiammo il cinema italiano potrebbero tornare a casa avendo capito che si può amare qualcosa senza che sia di un qualche pregio.

E forse domani nei loro articoli scriveranno "mi piace" anziché "è un capolavoro".

 


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