Pranzo di ferragosto, premiato a Venezia come miglior opera prima, è l’esordio da regista di Gianni Di Gregorio, sceneggiatore e aiuto di uno degli autori più sorprendenti degli ultimi anni del nostro cinema, Matteo Garrone. E si vede, almeno in parte. Queste le carte (o le pietanze!) in tavola: un ferragosto torrido in una Roma svuotata e il compito di Gianni di tenere in casa non solo sua madre, come fa da sempre, ma altre tre vecchiette, familiari di amici o presunti tali, con i quali Gianni ha contratto debiti vari, che non ha altro modo di estinguere visto che è sempre al verde e senza un lavoro. Di garroniano, Pranzo di ferragosto conserva forse la libertà conferita alla mdp che, con movimenti sempre tangibili e avvertiti, si avvicina a distanza millimetrica dai soggetti, soprattutto nelle scene girate in interni. Se Di Gregorio lascia respirare di più i suoi soggetti negli esterni, è principalmente per ritrarre la Roma spopolata e desertica del periodo estivo che, inesorabilmente, la svuota. Ma la libertà in questo film si respira anche a livello di interpretazione e scelte di montaggio. Se le quattro vecchiette protagoniste insieme a Di Gregorio – che non si accontenta di rimanere dietro la mdp, ma vi passa davanti interpretando l’uomo di mezza età “costretto” ad accudire la mamma ormai novantenne – vi sembreranno al contempo impacciate e spontanee è perché non sono affatto attrici professioniste, tanto meno schiave di una sceneggiatura scritta a tavolino. I toni sono quelli da commedia, ma come rilassata, di certo non frettolosa, dato che tempi morti e dettagli non sono tagliati, in un’economia del racconto che se toglie densità all’azione ci guadagna in spontaneità. Il ritratto della senilità firmata Di Gregorio non è timoroso di mostrarci le mani nodose, la pelle rilassata e ispessita dalle rughe in rilievo, tutti i vizi e l’insofferenza di queste vecchiette (perché si sa, invecchiando, si torna un po’ bambini...). E dunque il nostro protagonista si troverà alle prese con medicinali e orari da far rispettare, invischiato in una guerra civile per l’utilizzo del televisore, costretto ad un’uscita in piena notte per recuperare una delle sue ospiti. Ma se il regista/attore dimostra coraggio nell’affrontare con freschezza un tema attualissimo in un paese vecchio come il nostro, il rischio altissimo rimane quello di risolvere il tutto in una sintesi di buonismo e prevedibilità. La scelta davvero coraggiosa di Di Gregorio è allora esattamente quella di conferire al proprio personaggio un indolente cinismo che lo caratterizza dall’inizio alla fine. Ecco perché non solo ci strappa un sorriso vedere Gianni che prepara una teiera di camomilla con un’intera scatola di bustine e tanto di tranquillanti sciolti di nascosto, ma siamo addirittura stranamente sollevati quando il lieto fine che scandisce i tempi di un pranzo e di una convivenza che ha cementato nuove amicizie, prevede pure il pagamento in banconote di grande taglio al padrone di casa, che sentitamente ringrazia, con leggerissima esitazione. Così, con un gesto che sembrerebbe tutt’altro, il film – meno di novanta minuti di pellicola che non stiracchiano, per fortuna, il racconto – si chiude all’insegna di quella che ci sembra sia la cifra dell’intera operazione di Di Gregorio: l’onestà. TITOLO ORIGINALE: Pranzo di ferragosto; REGIA: Gianni Di Gregorio; SCENEGGIATURA: Gianni Di Gregorio; FOTOGRAFIA: Gian Enrico Bianchi; MONTAGGIO: Marco Spoletini; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2008; DURATA: 75 min.
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